“Noi ci siamo”: Marco Carini, segretario generale dei metalmeccanici Cgil di una delle provincie più colpite dall’epidemia, dice che questo è il motto cui si ispira l’azione del sindacato territoriale di categoria, in una situazione resa estremamente difficile dalla grave diffusione del contagio e dalla conseguente impossibilità di fare assemblee con i lavoratori. Carini ha 48 anni ed è Segretario generale della Fiom di Piacenza dal 2015. Il suo primo lavoro è stato a Poste Italiane, dove è divenuto delegato per la Slc, il sindacato dei lavoratori della comunicazione Cgil. Poi, col distacco sindacale, ha cominciato a fare il sindacalista a tempo pieno ed è quindi passato alla Fillea, il sindacato edili della stessa Cgil. In questa intervista, ci racconta come vive il sindacato nella trincea di una delle zone piu’ a rischio del paese.
A Piacenza c’è un ponte che attraversa il Po. Di qua siamo in Emilia-Romagna, di là in Lombardia. Per essere precisi, di là siamo in provincia di Lodi. E questo è il problema. Perché, come ci spiega Marco Carini, il Segretario generale della Fiom piacentina, se Lodi è più vicina a Milano che a Piacenza, Codogno, cittadina della Bassa lodigiana, è più vicina a Piacenza che a Lodi. Infatti, a separare Codogno dal ponte di cui stiamo parlando ci sono appena una ventina di kilometri, abitualmente percorsi, nei due sensi, da decine di pendolari. Il che spiega perché Piacenza sia diventata uno degli epicentri della diffusione del coronavirus al di sotto del Pò. Infatti, Codogno, come ormai ben sappiamo, è stato uno dei due primi centri in cui l’epidemia è esplosa nel nostro Paese (l’altro è Vo’ Euganeo, in provincia di Treviso).
Fatto sta che giovedì 26 marzo, quando raggiungiamo Carini al telefono, su 10.054 soggetti risultati positivi all’esame relativo al Covid-19 nell’intera Emilia-Romagna, sono ben 2.122 quelli registrati in provincia di Piacenza. “Qualcosa più di un quinto del totale regionale”, sottolinea Carini. Mentre i deceduti a causa dell’infezione polmonare “sono già 393, cioè 23 in più rispetto al giorno prima”, aggiunge lo stesso Carini.
“Qui da noi – riprende il sindacalista – la situazione è davvero molto grave. Per dare un’idea, basti pensare che proprio vicino alla sede della nostra Camera del lavoro è stato messo su un ospedale militare da campo. L’hanno installato nell’area del cosiddetto Arsenale che è, appunto, un’area militare. D’altra parte, si può dire che ognuno di noi ha un parente, o un amico, o un conoscente che è stato colpito dal virus. E poi, tra questi, c’è chi – pur essendo ammalato – sta ancora in casa sua, chi è all’ospedale intubato o chi, purtroppo, se n’è già andato. Quattrocento morti, in una realtà come la nostra, sono tanti.”
Qual era, prima dell’arrivo del coronavirus, la realtà dell’industria metalmeccanica in provincia di Piacenza? Su quali settori si articolava e con aziende di quali dimensioni?
“Per ciò che riguarda le dimensioni, il nostro è un territorio basato, tipicamente, su un tessuto fatto di piccole e medie aziende. Le più grandi delle quali possono arrivare fino a 400 addetti o poco più. Per quanto riguarda, invece, i settori, da noi c’è un insediamento tradizionale di imprese attive nel campo, cosiddetto, dell’Oil & Gas.”
Di cosa si tratta?
“In pratica, di fabbriche, più o meno grandi, che producono componenti necessarie per le attività svolte da altre imprese, quelle attive nel campo energetico, dall’estrazione di petrolio alla costruzione di reti basate su tubature. Ciò che viene prodotto da noi sono le cosiddette raccorderie, e quindi tubi per il trasporto di petrolio o gas, oltre alle cosiddette curve, che consentono a gasdotti e pipeline di cambiare direzione nei loro percorsi. Inoltre, cosa molto importante, produciamo valvole e attuatori, componenti decisive di questo tipo di impianti. Nonché apparecchiature per le piattaforme usate nelle operazioni di perforazione e per le attività estrattive. Questo settore, complessivamente inteso, occupa circa un terzo della nostra industria metalmeccanica. Per il resto, abbiamo soprattutto aziende che producono macchine utensili, caldaie e componentistica per veicoli industriali.”
E queste aziende come hanno reagito all’arrivo del coronavirus?
“Specie nei primi giorni, ci sono stati atteggiamenti e comportamenti diversificati. Non credo sarebbe giusto fare delle generalizzazioni improprie. Comunque, negli atteggiamenti delle diverse aziende c’è stata un’evoluzione.. In un primo tempo, i nostri delegati si sono assunti il compito di rappresentare i sentimenti dei lavoratori. Come credo sia facile immaginare, la gente qui non si sentiva tranquilla, ma viveva l’angoscia di un contesto segnato dalle notizie relative al rapido espandersi dell’epidemia. Diciamolo francamente: nella prima fase ciò che è prevalso è stata la paura del contagio. Sotto questa spinta, nelle aziende abbastanza grandi per avere una rappresentanza sindacale quanto meno significativa, i nostri delegati hanno fatto un lavoro enorme per convincere i dirigenti aziendali ad assumere adeguate misure volte a prevenire la diffusione del contagio stesso, condividendo percorsi di messa in sicurezza almeno accettabili.
E poi?
“Adesso, in quella che definirei come seconda fase, la stragrande maggioranza delle aziende ha cambiato atteggiamento, nel senso che ci chiede di firmare degli accordi per la richiesta di Cassa integrazione. In una settimana, sono stati decine e decine gli accordi che vanno in questa direzione. In sostanza, si sta fermando tutto, o quasi, a partire dalle aziende più grandi. Del resto, già martedì 24 marzo la Regione ha emesso un’ordinanza con nuove misure più restrittive, valide sia per la nostra Provincia che per quella di Rimini, le più colpite dell’Emilia-Romagna. A oggi, direi che la situazione vede un’ulteriore, continua, evoluzione. Mi riferisco al succedersi delle disposizioni governative e regionali relative ai settori considerati, o meno, essenziali e alla conseguente azione svolta dalle Prefetture rispetto alla valutazione dei codici Ateco e dei conseguenti comportamenti aziendali. Penso quindi che questa evoluzione dovrà essere monitorata, anche da parte nostra, con molta attenzione.”
I sindacati sono organizzazioni che vivono di riunioni, di incontri. In una situazione in cui spostarsi sul territorio è difficile se non impossibile, come fate, tecnicamente, a fare il vostro mestiere?
“La nostra difficoltà più grande è che non possiamo fare le assemblee con i lavoratori. Passiamo le nostre giornate al telefono, o davanti al computer. Usiamo di tutto, dalle chat dedicate alle videoconferenze. E’ così che ci teniamo in contatto con i nostri delegati, è così che facciamo o seguiamo le trattative con i capi del personale delle maggiori aziende. Aggiungo e sottolineo che la sede della Camera del lavoro è comunque aperta, anche se, ovviamente, solo entro le modalità previste dalle ordinanze regionali. Con tutte le difficoltà del caso, il nostro motto è e resta ‘Noi ci siamo’, e ci sforziamo di farlo sapere ai lavoratori. Ma tutto è veramente molto difficile. Io stesso ho passato gli ultimi giorni in quarantena, a casa, perché ero entrato in contatto con una persona che è poi risultata positiva. Oggi, però, ho finalmente ricevuto una buona notizia: il mio esame è risultato negativo. E insomma, speriamo che tutto questo finisca presto.”
@Fernando_Liuzzi