Mancano le mani sui fianchi e la testa gettata indietro, con un’espressione di spavalda sfida. Ma per il resto Giorgia Meloni sta assumendo, in progressiva e plastica evidenza, le sembianze della Ducia. I settanta minuti del discorso pronunciato alla festa di Atreju sono un’altra inquietante tappa sulla via dell’apoteosi. Star internazionale e icona pop, la sublima Mario Sechi su uno dei quotidiani sostenitori, tutti osannanti. Roba da cinegiornale Luce.
Sorridente, torva, minacciosa, ironica, aggressiva, determinata. Forse è la certezza del crescente potere individuale a farle incarnare, non si sa quanto consapevolmente, crescenti posture ed espressioni da capo, anzi capa. Anche il linguaggio perentorio non ha sfumature: o con me o contro di me.
L’opposizione viene bollata quale nemico della nazione e gli avversari accusati di avere sempre un proprio tornaconto. I suoi alleati, Matteo Salvini e Antonio Tajani, possono solo restare in seconda fila, dietro di lei, lo sguardo basso. Non c’è spazio, con buona pace del leader leghista, per credibili protagonismi. L’unico che poteva contrastarla, e lo ha fatto, era Silvio Berlusconi.
Tanto che, per paradosso, a sinistra aleggia un imbarazzato rimpianto. Gli appunti, vergati su carta intestata villa s. martino mentre sedeva sui banchi del Senato, il 13 ottobre dello scorso anno, giorno dell’elezione di Ignazio La Russa, restano scolpiti come tavole profetiche: “Giorgia Meloni. Un comportamento 1 supponente, 2 prepotente,3 arrogante, 4 offensivo. Non ha disponibilità ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo”. C’era anche un’altra riga, il punto 5, con la definizione “ridicola”, che però il Cavaliere aveva coperto con un tratto di penna, forse consapevole che non c’era nulla da ridere.
Giudizi poi smentiti in modo blando, non credibile, e che, con il passare del tempo, si stanno rivelando sempre più azzeccati. “Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, gridò in Spagna ospite dei nostalgici franchisti di Vox e ripeté poi in un comizio a Roma. Il grido di battaglia divenne, ad opera di alcuni buontemponi, un tormentone virale.
“Io sono Giorgia”. Punto e basta. Una rivendicazione e una pretesa di fiducia, che fa rima con Ducia. Non conta quel che dice, anche se smentisce se stessa, come sulle accise della benzina, sulle accuse all’Europa, sull’uscita dall’euro. Lei pretende un atto di fede. Agisce in modo metapolitico. Dio, Patria, Famiglia. Solo io posso proteggervi e guidarvi. Ed ecco che la proposta di un, o meglio, una premier eletta direttamente dal popolo si attaglia con precisione al suo volto proteiforme.
I sondaggi continuano a darle ragione. E allora la domanda sorge spontanea: perché gli italiani le credono, senza tentennamenti? Sono disposti ad accettare che, se vincesse le elezioni anche solo con un voto in più, potrebbe ottenere automaticamente il 55 per cento dei voti? E se, ipoteticamente, affermasse che bisogna reintrodurre la pena di morte, le andrebbero dietro? E in cupo futuro di scontro mondiale, la seguirebbero anche in guerra?
Speriamo di non dover mai rispondere a queste domande, di certo esagerate, faziose, strumentali. Ma di fronte a chi non ha mai fatto i conti con il fascismo ed anzi rivendica di essere un’epigona di Giorgio Almirante, la paura fa novanta.
La verità che restiamo un Paese scarso nella grammatica democratica, con una coscienza sociale immatura. Tornano alla mente le analisi di Piero Gobetti, il quale attribuiva le deficienze della nostra storia all’assenza, da noi, di una Riforma Protestante e definiva il Risorgimento come una rivoluzione fallita. “Il popolo- chiosò Armando Saitta illustrando l’analisi dell’irraggiungibile pensatore – rimase assente da quel moto, che a sua volta non riuscì a scalfire il conformismo, il versipellismo e la retorica che secoli di separazione dal generale progresso della civiltà e quel particolare sistema di oppressione che era stata la Controriforma avevano generato nella vita degli italiani”.
Eppure, basterebbe poco per mettere a nudo la vacuità della nostra aspirante “leader maxima”. Il 22 febbraio del 1930, sul giornale berlinese Tagebuch apparve, a firma Ludwig Bauer, un articolo che cominciava così: “La forza di Mussolini consiste nel non rivelare mai quanto egli sia debole in realtà. Da secoli il mondo non è stato giocato da un bluff così completo. Bluff del progresso così vantato: meno disoccupati, ma milioni di uomini costretti al lavoro di puro prestigio; bilancio passivo, debito pubblico crescente. Nessuno sa come i buoni del Tesoro saranno pagati alla prossima scadenza”. La tragedia di ieri, la farsa di oggi. La musica è sempre la stessa. Ma il pubblico, inebetito e immemore, continua ad applaudire.
Marco Cianca