I nomi hanno la loro importanza. Il TFR ricorda la tanto sospirata “liquidazione” che si prendeva alla fine del rapporto con la propria azienda durato una vita per soddisfare qualche desiderio da pensionato, come ad esempio l’acquisto di una seconda casa per sé o per i propri figli e nipoti.
Un uso simile ormai fa parte di un passato lontano quando, con le regole di calcolo della pensione pubblica, si poteva contare su un trattamento pensionistico pari all’80% dell’ultima retribuzione o addirittura superiore, quindi non si aveva la necessità di utilizzare questa forma di risparmio per garantirsi, al momento della quiescenza, lo stesso stile di vita che ci si poteva permettere fino a che si percepiva uno stipendio da lavoro dipendente.
Ora la situazione è totalmente diversa: le riforme previdenziali che si sono succedute nel nostro Paese hanno portato ad una diminuzione costante del tasso di sostituzione (il rapporto tra l’assegno pensionistico e l’ultimo stipendio percepito) e ciò comporta per i lavoratori la necessità di investire più risorse possibili sull’integrazione della pensione pubblica.
Occorre, sempre più, pianificare e strutturare la nostra vecchiaia, per fare fronte anche alle problematiche derivanti dallo spostamento sempre più in avanti dell’età pensionabile.
Il trattamento di fine rapporto è una risorsa importante da sfruttare al massimo, per questo propongo ne venga cambiato il nome, anche per significare il diverso uso che se ne dovrebbe fare ovvero un investimento per il futuro perfino non necessariamente previdenziale. Un nome nuovo per ricordare a ciascuno che abbiamo nel nostro personale bilancio una somma utile da sfruttare al massimo, cogliendo tutte le opportunità che una legislazione favorevole ci propone e non un trattamento semplicemente da ritirare cessata l’attività.
Per comprendere tutte queste opportunità diciamo subito che le regole generali che andremo a trattare si applicano a tutti i lavoratori dipendenti, ma che ogni Fondo di Previdenza ha talune norme che differiscono tra loro e che è necessario sapere.
Tenendo poi a mente che il risparmio che si riesce a destinare alla previdenza complementare può rivelarsi utile in tutte le fasi della vita di un lavoratore, non solo per garantire una pensione integrativa di quella che sarà erogata dall’INPS.
Il capitale accumulato presso il Fondo di Previdenza Complementare scelto, oltre ad accrescere l’ammontare della pensione integrativa, può anche essere utilizzato a supporto dell’ipotesi di dover o voler cessare l’attività lavorativa anticipatamente, prima di aver maturato i requisiti per poter accedere al pensionamento pubblico. Con l’introduzione della RITA (Rendita integrativa temporanea anticipata) è infatti possibile utilizzare – in tutto, o in parte – la posizione maturata presso il Fondo, per avere una rendita in attesa della pensione INPS.
Per tali motivi il DLgs 252 del 2007 ha apportato notevoli vantaggi di natura fiscale alla previdenza complementare, riferibili a contributi versati dal primo gennaio 2007 in avanti.
Si è passati, infatti, da un sistema basato sulla tassazione separata, con applicazione dell’aliquota media degli ultimi 5 anni e con un prelievo generalmente non inferiore – per un dirigente – al 35%, ad una tassazione sostitutiva (per le prestazioni in rendita o capitale, le anticipazioni per spese sanitarie e alcuni casi di riscatto) pari al 15%, con possibilità di riduzione fino al 9% con uno sconto fiscale legato alla anzianità del lavoratore presso il Fondo (l’aliquota del 15% è diminuita di uno 0,30% per ogni anno successivo al 15esimo fino ad arrivare alla tassazione minima del 9% con 35 anni di anzianità presso il fondo pensione ).
Il riscatto della posizione individuale, se si perde l’occupazione prima del pensionamento, e le altre tipologie di anticipazione (per acquisto prima casa e altre esigenze personali), sono sottoposte sempre ad una forma di tassazione sostitutiva fissa, ma con applicazione dell’aliquota del 23%.
Tassazione sostitutiva fissa significa che tali entrate non fanno cumulo ai fini fiscali con gli altri redditi soggetti ad Irpef di cui il lavoratore può essere titolare.
La gestione del TFR versato
Il TFR viene conferito in modalità tacita o esplicita. Nel caso in cui un dirigente appena nominato non effettui alcuna scelta entro sei mesi dalla nomina, il TFR maturando confluirà al Fondo di previdenza complementare previsto dal CCNL di categoria.
Il versamento del trattamento di fine rapporto conferito viene gestito con riferimento a più linee di investimento a disposizione dell’iscritto al Fondo di Previdenza Complementare.
La politica di investimento relativa a ciascun Comparto, le relative caratteristiche ed i diversi profili di rischio e rendimento sono descritti sinteticamente nella Nota Informativa e nel Documento sulla Politica di Investimento, solitamente consultabili sul sito internet del Fondo di Previdenza Complementare.
Occorre, infine, considerare che le quote di TFR conferite e versate alla previdenza complementare iniziano immediatamente a maturare rendimenti; al contrario, il TFR lasciato in azienda viene rivalutato solo dall’anno successivo.
Tramite questo sistema, quindi, non è solo la tassazione ad essere più conveniente rispetto a quella applicabile al TFR lasciato in azienda, anche i rendimenti sono in media superiori, poiché non sono legati all’inflazione, come avviene per la rivalutazione del TFR.
Il TFR mantenuto in azienda
Nel caso in cui si decida di mantenere il TFR in azienda, l’effettiva conservazione dello stesso nelle casse aziendali sarà condizionata dall’appartenenza del lavoratore ad un’azienda che occupa un numero di dipendenti fino a 49, oppure ad una che ne occupa 50 o più.
In quest’ultima ipotesi, infatti, il TFR maturando, formalmente destinato all’azienda, dovrà di fatto essere devoluto all’INPS, che ne deterrà la disponibilità finanziaria fino alla liquidazione.
Resta in tal caso ferma la disciplina attualmente in vigore, con i relativi adempimenti di competenza dell’azienda in materia di rivalutazione di legge, di anticipazione e di liquidazione.
La scelta di mantenere il TFR in azienda è sempre revocabile, a favore della destinazione alla previdenza complementare.
TFR alla previdenza complementare e il supporto della RITA
Aver maturato un accantonamento considerevole presso un fondo di previdenza complementare, permetterà di valutare, in base alle proprie esigenze personali e familiari, se utilizzare tutto il montante accumulato o parte di esso, per l’erogazione di una rendita mensile, dal momento della cessazione dell’attività lavorativa e fino al compimento dell’età pensionabile (attualmente 67 anni), avendo comunque l’opportunità di mantenere in gestione la parte non utilizzata per la RITA, beneficiando quindi anche dei relativi rendimenti.
Ricordiamo che la RITA può essere richiesta, una volta cessata l’attività lavorativa, con un anticipo massimo di 5 anni, rispetto al compimento dell’età per il pensionamento di vecchiaia, con almeno 20 anni di contribuzione alla previdenza pubblica e almeno 5 anni di anzianità contributiva nella previdenza complementare. Se si è stati disoccupati per un periodo superiore a 24 mesi è possibile richiedere la RITA con un anticipo di 10 anni.
La RITA è compatibile con i redditi da lavoro e con quelli di natura previdenziale (pensione anticipata per anzianità, pensione ai superstiti, assegno di invalidità, ecc.) che dovessero intervenire successivamente alla sua erogazione.
Il TFR pregresso
È possibile devolvere al Fondo di Previdenza Complementare, accordandosi con il proprio datore di lavoro, il TFR accantonato in azienda negli anni precedenti la data di adesione, anche se riferito ad anni antecedenti il 2007, a meno che non sia stato versato al Fondo di Tesoreria INPS, nel caso in cui la dimensione aziendale sia pari a 50 e più dipendenti.
La devoluzione del TFR ha effetti anche sull’anzianità di iscrizione alla previdenza complementare e, conseguentemente, anche sulla determinazione dell’aliquota (15/9%) di tassazione delle prestazioni.
Conclusioni
Si continui a chiamare TFR o passi un nuovo nome dobbiamo tutti ricordarci che le nostre scelte di oggi possono davvero cambiare il nostro futuro. Il Tfr in azienda è una “non scelta” che se fosse invece ben valutata come proposto ci consentirebbe maggiori risparmi fiscali, maggiore flessibilità d’uso, maggior rendimento e perché no, un pensiero più positivo rispetto al concetto di “trattamento di fine rapporto”.
Massimo Fiaschi