Raffaella Vitulano
”L’IMPORTANTE è lavorare. Imballiamo datteri. Sappiamo di essere sfruttati, ma cosa possiamo fare? Qui ci sono 6 posti di lavoro e 50 detenuti che non aspettano che una cosa: che noi smettiamo… Mi piacerebbe seguire un apprendistato, ma posti non ce ne sono, e poi non riceverei alcun salario”.
E’ la testimonianza di un detenuto di una prigione privata australiana, raccolta dalla Cisl internazionale (Icftu) in un rapporto pubblicato durante l’89^ Sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro in corso a Ginevra fino al 21 giugno. In Australia, come in altri paesi anglosassoni, il settore privato viene sempre più coinvolto nell’”industria penitenziaria”, sottutilizzando la manodopera nella produzione di beni e servizi o gestendo direttamente il carcere come farebbe un imprenditore.
Per i poteri pubblici e le imprese che la sponsorizzano, tale evoluzione si giustifica soprattutto con l’aumento della popolazione penitenziaria e dei relativi costi. Per gli avversari, è soprattutto legata alla deregulation economica e alla ricerca di profitti. Senza dimenticare che l’aumento del tasso di carcerazione è presente in tutto il mondo, il lavoro forzato non sembra poi così ineluttabile nella nostra società. Il lavoro in carcere costituisce uno degli esempi della Convenzione 29 dell’Oil sul divieto di lavoro forzato, (al pari del servizio militare o della requisizione della popolazione in casi d’urgenza e dei comuni lavori in miniera), è sottoposto ad alcune condizioni: i detenuti devono essere stati condannati, non possono essere ”affittati” o messi a disposizione del settore privato e i poteri pubblici devono supervisionare e controllare il processo. Negli esempi sopra citati è l’interesse della società in generale che fa pressione. Il lavoro in prigione ha, in teoria, una funzione di reinserimento e riabilitazione, ma nell’evoluzione in corso la Convenzione non è mai stata rispettata, come mostra il rapporto della Icftu, basato su sei paesi in situazioni piuttosto contrastate.
Nel caso della Cina, l’esportazione dei prodotti fabbricati in prigione è oggetto da numerosi anni di vigilanza dei paesi occidentali. I detenuti sono utilizzati nelle risaie, nelle piantagioni, nelle miniere d’oro, d’argento, di rame o di zinco, nei cantieri edili ed idraulici, nelle strade, nelle ferrovie, nelle industrie automobilistiche.
Gli avvenimenti politici e la grave crisi economica che attraversa la Federazione russa hanno ugualmente creato squilibri nel sistema carcerario. Il numero dei detenuti è considerevole, ma i vecchi clienti (imprese di Stato) sono scomparsi o sono insolventi. Per i detenuti, la prospettiva di evitare le sofferenze del lavoro forzato non è che una grama consolazione. Da un lato, laddove lavorano, i prigionieri sono severamente puniti se il loro rendimento non è giudicato soddisfacente. D’altra parte, le condizioni dei detenuti non sembrano essere migliorate, dato che ogni anno circa 11.000 di loro muoiono sotto colpi di percosse e ferite, in condizioni sanitarie deplorevoli.
Anche le condizioni dei lavoratori in Camerun sono pessime, vittime di guardiani spesso corrotti e violenti. Per premunirsi da tali problemi, o per sopravvivere semplicemente, cercano una fonte di reddito, anche se irrisoria, lavorando all’esterno al profitto di un’azienda o di una municipalità. Ma l’evoluzione più critica in questi paesi riguarda la proporzione dei prigionieri non giudicati: 49% nel 1997, 80% nel 2000. Anche qui siamo ben lungi dal rispettare la convenzione n°29.
In una nota inviata all’Oil, il sindacato africano Actu precisa soprattutto che i prigionieri sono obbligati a lavorare nelle tre prigioni private a Victoria, tristemente famose per l’altro tasso ”di suicidi, atti di automutilazioni, violenza tra detenuti o tra guardie e detenuti, nonchè consumo di droghe”.