Per anni, la sinistra politica e sindacale ha “demonizzato” il lavoro nei call center. Un film di successo – accolto dal plauso degli intellettuali di “regime” – si è persino permesso di offendere i dipendenti dei call center descrivendoli come minus habentes, pronti all’imbroglio e alla truffa, per conto dei loro famelici datori di lavoro (qualcuno anche al furto delle pensioni di anziane e sprovvedute signore) e, se donne, candidate – in caso di perdita di quella “cattiva occupazione” – a battere il marciapiede, come se vi fosse una soluzione di continuità. Insomma, nell’immaginario collettivo, il lavoro nei call center aveva preso il posto di quello svolto, negli anni sessanta e settanta, alle grandi catene di montaggio.
Era diventato il simbolo di un moderno sfruttamento mediante la precarietà: una condizione da contrastare con tutti i mezzi, in nome della dignità della persona. Quanti consideravano i call center un modo per comunicare con il mercato e la propria clientela, riconducibile a quelle esperienze di outsourcing ormai tanto diffuse in numerose attività ed ormai prossimo ad essere superato, da un lato, ad opera della delocalizzazione (quando i romeni saranno in grado di parlare a perfezione l’italiano), dall’altro, attraverso l’introduzione di nuove tecnologie “automatiche”, non riuscivano a capacitarsi di tanto accanimento, dal momento che non avevano dimenticato le schiere di signorine che – all’inizio dell’era della telefonia – lavoravano nei centralini, infilando degli spinotti nelle linee.
I call center sono diventati così il campo di sperimentazione della lotta al precariato, individuando mansioni da regolare con rapporti a tempo indeterminato sulla base di criteri abbastanza cervellotici, a fronte di altre per le quali potevano restare applicabili forme di lavoro flessibile. Ovviamente la c.d. stabilizzazione ha comportato dei costi maggiori, in parte posti a carico della collettività e in parte degli stessi lavoratori, in termini d’invarianza del trattamento economico prima percepito nel limbo della c.d. precarietà. La crisi ha fatto il resto, mettendo in evidenza che vi sono settori ad alta intensità di “capitale umano” in cui il costo del lavoro svolge un ruolo decisivo per la loro sopravvivenza. Così è iniziata la “fuga per la competizione”: dalle situazioni di irregolarità fino all’abbandono del Paese “patrigno”. Alcuni accordi sindacali hanno fatto il resto. Quando si stabilizzano dei rapporti di lavoro – senza modificare le mansioni – succede sovente che i lavoratori facciano causa chiedendo degli arretrati ex tunc e che qualche giudice dia loro ragione. Occorre, allora, “metterci una pezza” sul versante legislativo dal momento che non si possono condannare a morte le imprese. E’ il caso dell’articolo 50 del “collegato lavoro” che ha previsto una sorta di forfetizzazione del risarcimento del danno (massimo sei mensilità) in caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto di collaborazione.
Ma come sempre succede, non è agevole difendere delle soluzioni eque da un formalismo giuridico che non si pone (potrebbe farlo del resto?) problemi di sostenibilità economica ed occupazionale delle sentenze.
In ogni caso, le interviste svolte da Il Diario del lavoro dimostrano che il clima è cambiato. O meglio: che si comincia a dare conto anche dei pareri di quei lavoratori che, nonostante tutto, hanno del buon senso e non ci tengono a diventare dei protagonisti di una commedia (Dalli al Call Center !) imbevuta di retorica.
Giuliano Cazzola, vicepresidente Commissione Lavoro Camera dei Deputati