Forse ci dovremo abituare a fare a meno dell’unità sindacale come l’avevamo conosciuta. Non è un problema capitale, in tanti paesi la rappresentanza sindacale è divisa e le relazioni industriali funzionano bene lo stesso. Ma noi eravamo abituati a questa nostra felice anomalia, nella quale convivevano tre distinti sindacati, tutti dotati di una forza non indifferente, ciascuno con la sua individualità, ma sostanzialmente uniti nell’azione. Erano tre, ma agivano uniti. Cgil, Cisl e Uil, negli anni, e pur dopo qualche inciampo, avevano imparato a unire le loro forze. Anche perché, come recita l’assioma, uniti si vince.
Ma tutto sembra ormai avviarsi verso la rottura di quell’unità d’azione alla quale ci eravamo abituati. Attenzione, non è sempre stata vita facile per l’unità sindacale. Negli anni ci sono state divisioni anche molto forti, ma poi tutto in qualche modo si accomodava, l’unità tornava a prevalere sulle divisioni anche gravi. Stavolta qualcosa sembra essersi rotto in modo più serio ancora, e riappiccicare i cocci non sarà facile. L’evidenza è arrivata con lo sciopero generale dello scorso mese di dicembre, quando, nel pieno di una trattativa con il governo, che magari non aveva prodotto risultati eccellenti, ma nemmeno trascurabili, Cgil e Uil hanno deciso di andare in piazza per protestare contro l’esecutivo, salvo poi cambiare almeno in parte obiettivo, affermando che oggetto della protesta erano soprattutto i partiti che quel governo imbrigliavano eccessivamente. In ogni caso si era trattato di una protesta forte. La Cisl però aveva deciso diversamente: preferiva continuare il confronto e per segnare il proprio disaccordo ha fatto seguire alla manifestazione di piazza di Cgil e Uil, due giorni dopo, un’altra manifestazione in un’altra piazza di Roma.
Nei mesi le difficoltà sono continuate, il solco si è allargato. Il congresso della Cisl a maggio scorso ha aggravato le distanze, perché nella sua relazione il segretario Luigi Sbarra ha ribadito tutti i motivi di dissidio con le altre sigle, senza attenuare lo scontro e i leader di Cgil e Uil per ripicca non si sono presentati a una tavola rotonda prevista dal congresso alla quale erano stati invitati, oltre a tutto irritati per non essere stati chiamati a parlare dal podio centrale, come tradizione nei congressi confederali.
Ma affermare che tutto sia iniziato a dicembre scorso in realtà è fuorviante, perché i motivi di distinzione tra le tre confederazioni erano reali ed evidenti già da tempo, quella di dicembre è stata solo la scintilla che ha palesato fino in fondo le distanze esistenti. Quello che sta emergendo chiaramente è che le due confederazioni maggiori, Cgil e Cisl, si stanno allontanando tra di loro sempre di più, portando avanti strategie assai differenti. La Cgil si caratterizza come un sindacato – movimento, nei fatti tendente alla contrapposizione piuttosto che al dialogo. La Cisl al contrario appare disposta al confronto, vedendo nella contrattazione il proprio principale compito. L’una pronta alla prova di forza per dimostrare la propria capacità offensiva e raggiungere i suoi obiettivi, fino all’antagonismo, l’altra più interessata a cercare al tavolo di trattativa i risultati che le interessano. La prima si considera rappresentante dell’intera classe operaia, la seconda è più concentrata sui propri associati. La controprova è venuta un anno fa, quando, in occasione dell’assemblea di Confindustria, il presidente Carlo Bonomi propose a governo e sindacati un patto sociale triangolare per affrontare i problemi del paese. Mario Draghi accettò subito l’invito, Sbarra fu sulla stessa linea, mentre Maurizio Landini fin dal primo momento si mise di traverso, impedendo nei fatti che la trattativa si avviasse.
Due sindacati differenti, dunque, che si assegnano compiti diversi, e forse non (più) conciliabili. Quanto alla Uil, in questo quadro si è collocata al fianco della Cgil, modificando lo schema tradizionale che vedeva sempre Cisl e Uil unite e opposte alla Cgil quando l’unità si incrinava. Questa volta, invece, Pierpaolo Bombardieri, il segretario generale che un anno fa ha preso il posto di Carmelo Barbagallo, passato a dirigere i pensionati della confederazione, si è schierato con la Cgil e da quella posizione non si è più mosso.
Proprio il fatto che questa divisione trovi la sua ragione, più che in una differenza di strategie, in una diversità di assetti culturali, fa temere che sia difficile che rientri più o meno velocemente. L’impronta movimentista che Landini ha dato alla Cgil da un lato, e dall’altro il rafforzamento delle linee tradizionali d’azione da parte della Cisl, fanno credere che la situazione non cambierà facilmente. E questa non è una buona notizia per la salute e l’efficienza del sindacato preso nel suo insieme. Non solo perché uniti si vince – si può vincere anche separati, sia pure con maggiore sforzo- ma perché queste divisioni sono destinate, persistendo nel tempo, ad approfondirsi e soprattutto a radicarsi tra i lavoratori, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro. Al momento le federazioni di categoria continuano a muoversi unitariamente, le trattative contrattuali si svolgono unitariamente, ma i primi scricchiolii iniziano a palesarsi. Dopo la battaglia della scala mobile degli anni 80, che è stato il momento in cui le distanze tra le confederazioni furono maggiori, proprio questo avvenne: le divisioni scesero dal vertice delle confederazioni fino ad arrivare ai lavoratori. Ci fu molto da lavorare per recuperare.
Questa divisione non fa bene al sindacato e ai lavoratori, ma nemmeno al paese preso nel suo insieme. Perché in questo modo il sindacato perde peso politico, sparisce dalle scene, soprattutto non è in grado di svolgere quel ruolo di supplenza della parte politica che pure, in passato, riuscì a rimettere in carreggiata l’Italia in momenti di grande difficoltà. Le parti sociali perdono peso e riprende forza chi tifa per la disintermediazione. Ma in questo modo è il corpo stesso della democrazia a risentirne. Lo vediamo anche in questi giorni in cui siamo entrati in una crisi che è politica, economica e sociale assieme, a cui i partiti non sono stati in grado di reagire se non affidando a Draghi il governo, salvo poi toglierglielo nel momento meno opportuno. E mai hanno cercato il sostegno delle parti sociali, che pure su molti di quei problemi avrebbero avuto il dovere di esporsi, avendo anche la possibilità di produrre risultati importanti, come spesso è avvenuto. Una perdita di peso specifico che, si teme, finirà per riverberarsi anche sulla capacità di farsi sentire al momento di difendere i diritti dei lavoratori.
Massimo Mascini