Maurizio Ricci – giornalista di Repubblica
La crisi della Fiat non è solo la crisi di un’impresa italiana, è la crisi dell‘impresa italiana. Non solo e non tanto perché si tratta dell’impresa più importante. E neanche perché è l’impresa storicamente egemone nella cultura e nella politica industriali. E’ la crisi dell’impresa nazionale, nel senso che le difficoltà attuali del gruppo torinese sono il paradigma della debolezza dell’industria italiana: riassumono i motivi per cui, a cinquant’anni dal suo affacciarsi sui mercati mondiali, l’Italia è ancora il paese del nanismo aziendale, da sempre incapace di opporre una qualsiasi resistenza significativa alle fluttuazioni della congiuntura internazionale. Come tutti i paradigmi, anche questa è una semplificazione: la realtà storica è sempre più ricca e complessa dei paradigmi. Ma i paradigmi aiutano a trovarne la chiave interpretativa.
Una delle svolte più significative nella storia dell’impresa italiana degli ultimi decenni avviene all’inizio degli anni ’80, quando la Fiat comincia ad applicare la cura Romiti. Finita, con l’adesione allo Sme, il Sistema monetario europeo, l’era delle svalutazioni facili, la Fiat reagisce alle difficoltà di mercato, sempre agendo dal lato dei costi e, soprattutto, del costo del lavoro, inteso sia come quantità di addetti, sia come entità dei salari reali. Non è una novità, ma, stavolta, il compito sembra assorbire tutte le energie e tutte le strategie. Non riguarda solo la Fiat. Ma Cesare Romiti ne è, insieme, il profeta, l’alfiere e l’apripista. Sarà una battaglia lunga e dura, ma, alla fine, la Fiat e il sistema delle imprese italiane la vince. Salvo accorgersi, oggi, che è una vittoria di Pirro. Il costo del lavoro è un problema? Sì che lo è. E’ l’unico problema? No, non lo è. Oggi, dopo oltre dieci anni di ridimensionamenti di organici e di moderazione salariale, la Fiat scopre che la sua è una crisi di modelli, di design, di qualità. E’ una crisi non di costi, ma di prodotto. Ha dimenticato la lezione schumpeteriana, per cui il cuore del successo del sistema capitalistico è, anzitutto, nell’innovazione.
Gli errori sono stati molti, a cominciare dalla rinuncia a valorizzare il patrimonio di marche prestigiose come Lancia ed Alfa Romeo, banalizzato e ridotto a categoria indistinta all’interno del parco Fiat. Non è stata una rinuncia casuale: anch’essa è il frutto della convinzione che la strada da battere fosse quella del mercato di massa e la leva del successo il costo, cioè il prezzo, prima della qualità. Per scoprire che, in un mercato prevalentemente di sostituzione, la variabile che conta è la qualità, molto prima del prezzo. Anzi, più in generale, la Fiat risulta indietro non di una, ma di tre tacche, rispetto al livello necessario per reggere botta nel mercato attuale. Ha trascurato la qualità. Non ha prodotto novità. E non ha capito la nuova veste, in cui, dagli anni ’90, si presenta la vecchia lezione schumpeteriana. L’innovazione di prodotto, la novità, per tradursi in un successo di mercato, deve diventare moda, fenomento culturale, affascinare il sofisticato consumatore dell’era postindustriale, trascinandolo anche al di là del prezzo, della qualità, dell’effettivo miglioramento del prodotto. Come nel caso Smart. O nel boom delle monovolume. E dei fuoristrada. Tre appuntamenti che Torino ha perso, uno dopo l’altro.
La crisi Fiat è un paradigma, perchè questa non è solo la storia della Fiat, ma, in generale dell’impresa italiana. Ossessionata dal prezzo, cioè dal costo, più che dalla qualità e, dunque, incapace di difendere le sue quote di commercio mondiale. Preoccupata a guardarsi le spalle dai romeni, piuttosto che a rincorrere americani, tedeschi, giapponesi o scandinavi. Incurante della ricerca e, dunque, dell’innovazione. Specchio, del resto, di una politica che, mentre tromboneggia sulla necessità imprescindibile della formazione (‘formarsi o perire’ potrebbe essere l’epitaffio di buona parte dei discorsi politici di questi anni), taglia i fondi alla scuola, riduce i professori, aumenta il numero di alunni per classe. Tutte queste cose si dicono da anni: il caso Fiat dimostra che sono anche vere. Ma a giudicare dalle strategie dell’impresa Italia e dalle politiche che esprimono le sue organizzazioni e i suoi rappresentanti (Confindustria in testa: D’Amato, alla recente assemblea, non le ha neanche citate) non sembra che siano state capite. Ci sono motivi precisi per cui, al di fuori dagli Stati Uniti, le frontiere del software vengono tracciate nei paesi scandinavi, in Israele, in India e quelli della biotecnologia in Gran Bretagna. E nessuno di questi motivi si ritrova in Italia.
C’è una eccezione, come sempre, per confermare la regola. E questa eccezione è la moda. E’ l’unico esempio di industria italiana che si sia affermata nel mondo, fino a diventare parametro di riferimento per tutti: nelle formulette dei giornali americani, le auto sono tedesche, i telefonini scandinavi, la parola style si accompagna all’aggettivo italian. Come i giornalisti americani sanno benissimo, si tratti di giacche, scarpe o sciarpe, non è roba che costa poco. E, come le Mercedes o le Bmw, neanche ne sente il bisogno. E’ un settore che, per definizione, inventa, sfrutta il design, nuovi materiali, nuovi bisogni. E neanche esisterebbe, se non facesse, appunto, moda. L’ultimo caso in cui un’auto Fiat è stata anche una moda, probabilmente, è la 500 di cinquant’anni fa. E questo dovrebbe fare paura a tutti.