“La cosa più penosa, in giorni come questi…” Alla vigilia dei cinquant’anni dal ’68 tornano in mente le parole di questa canzone. Perché sul palcoscenico della politica (non solo a sinistra) prevalgono “le facce di sempre” e anche le idee di sempre: non so cosa sia peggio.
Ora è tornato di moda parlare di problemi sociali, di lavoro, di povertà, di giovani. Anche da parte di chi vent’anni fa pensava che bisognasse rompere i rapporti con l’intermediazione sociale a vantaggio del “primato” della politica, di chi riteneva che il lavoro fosse troppo rigido e impedisse lo sviluppo economico, di chi pensava che la modernizzazione avrebbe garantito benessere per tutte le generazioni. Tuttavia, malgrado la dichiarata volontà di invertire la rotta, se andiamo a guardare le decisioni di spesa degli ultimi 5 governi (al di là della diversa colorazione politica) e anche dell’ultima “legge finanziaria”, ci accorgiamo che si continuano a sostenere con denaro pubblico i bilanci delle imprese industriali private, nella speranza che da sole siano in grado di aumentare produttività e competitività del Paese. E a dare qualche bonus in giro.
Al punto che persino il FMI ci supera in realismo sostenendo che questa terapia non è sufficiente per la crescita.
Verrebbe da dire che c’è un problema culturale nella classe politica che viene prima della perdita di consenso e che spiega la progressiva lontananza dai temi sociali. Sforzandomi di essere oggettivo e rifuggire da valutazioni personali, richiamerei l’attenzione su alcuni grossi handicap del sistema della rappresentanza politica che spiegano (forse) le degenerazioni populiste degli addetti ai lavori e il desencanto degli elettori.
Il primo elemento di distonia tra politica e senso comune è relativo alla percezione del tempo. La politica sembra costretta alla ricerca del consenso sempre più a breve, il Paese, per uscire dal degrado e dal declino, ha bisogno di una programmazione almeno decennale in tutti i campi: la manutenzione ordinaria, l’innovazione, l’infrastrutturazione, la prevenzione e persino la gestione delle emergenze. La politica (a destra come a sinistra) non è capace di darsi un orizzonte lungo.
Forse in passato è stato vero il contrario: le vecchie classi dirigenti erano accusate di lentezze esasperanti, se non di immobilismo, rispetto alle dinamiche sociali ed economiche molto più veloci. Oggi a me pare sia vero il contrario. La politica cavalca l’onda istantanea di twitter e delle enews, trascurando la complessità delle cose reali e il respiro profondo necessario a modificarle.
Questa aritmia tra politica e realtà impedisce che i bisogni (la domanda del Paese), possano essere soddisfatti malgrado le dichiarazioni di intenti, i programmi elettorali, gli impegni assunti. Perché gli strumenti adottati per realizzarli saranno sempre agiti, quando va bene, in una logica di breve periodo sproporzionata e obbligatoriamente fuorviante rispetto alle dimensioni e alle cronicità dei problemi da risolvere. Si preferiranno gli annunci, le scorciatoie, le semplificazioni, l’assenza di verifiche, il demando a soggetti terzi (agenzie, gruppi tecnici, commissari) piuttosto che il coinvolgimento delle vie istituzionali proprie. Il cittadino e l’elettore medio percepiscono questa incongruenza.
Il secondo elemento di contraddizione è relativo proprio al rapporto tra istituzioni e capacità di governo attivo del territorio. Una fotografia “verista” del sistema istituzionale rileva almeno tre ambiti di governo che sono e restano separati fra loro anche se si suppongono parti di un governo integrato. Il primo ambito riguarda i Comuni: troppi e troppo piccoli, per essere espliciti. Soprattutto incapaci di dialogare fra loro e di creare occasioni di partecipazione e coordinamento. C’è un problema di risorse, certo, ma soprattutto una sproporzione tra le necessità e le competenze. In molti campi, a partire, purtroppo dalla “ordinaria amministrazione”. Perché il trattamento dei rifiuti, la distribuzione efficiente dell’acqua, l’energia, la sostenibilità ambientale, il sistema della mobilità non possono essere gestiti su una scala territoriale frammentata in migliaia di comuni e decine di migliaia di frazioni. C’è un problema di economie di scala, si dovrebbe dire, che viene prima delle dimensioni della spesa disponibile. Sopra i Comuni, dovrebbero essere enti di area più vasta a decidere gli ambiti territoriali adatti alla gestione dei diversi bisogni. Ma le province sono state trasformate in zombi e nessun soggetto nuovo è sorto a sostituirle. Anzi, le neonate Città Metropolitane rischiano di seguire lo stesso triste destino di desaparecidos. Pensare, per fare un solo esempio, che la Città Metropolitana di Torino possa governare i problemi dei suoi 316 Comuni significa non avere senso del reale.
L’altro ingranaggio che non gira come dovrebbe è quello delle Regioni. Al di là del loro numero, discutibile dal punto di vista dell’efficacia di governo del territorio se non da quello dei confini storico-geografici, le Regioni non sono in grado di dialogare fra loro in termini di programmazione concordata, di scelta delle priorità, di indirizzi e di spesa. Si coordinano in termini passivi di suddivisione delle risorse statuali, non in termini attivi di programmazione e coordinamento: né fra loro né con gli enti istituzionali che le compongono (Comuni, Province, Unioni).
Ma è in testa che batte il motore: nel discutibile funzionamento del sistema di governo nazionale. Perché il governo nazionale non coinvolge e non coordina gli enti intermedi nelle proprie decisioni, (perché programma a breve risposte che dovrebbero essere declinate in ambito pluriennale, come abbiamo detto), perché predilige e pratica politiche legislative invece che politiche reali. Generando in questo (complici le “riforme” elettorali) una sovrapposizione al ribasso tra funzioni legislative ed esecutive, con annullamento di fatto dell’autonomia del Parlamento. La governabilità, si potrebbe dire, si è mangiata il buon governo.
Queste contraddizioni del sistema Italia non sono teoriche: si toccano con mano su quasi tutti i temi sensibili. Dalla gestione dell’emergenza e della mancata prevenzione sismica alla riorganizzazione del sistema della salute e dell’educazione, alla inefficienza dei trasporti nelle aree interne e nel Mezzogiorno, all’infrastrutturazione carente, all’impiego dei fondi europei.
Di fronte a questa realtà così “penosa”, non si tratta certo di gettare “a mare le basi americane” come diceva il ritornello della canzone dalla quale siamo partiti. Perché il tema non è più all’ordine del giorno (anche se guardare la nuova base americana di Vicenza, dall’alto del Piazzale della Basilica, genera qualche interrogativo). Però i nostri handicap esistono e sarebbe bene affrontarli alla radice, con serie terapie riabilitative, prima che qualcuno pensi che sia giusto “gettare a mare” la politica e le istituzioni italiane.