Con la sentenza 26246 del 2022, la Corte di Cassazione interviene su una delicata e spinosa questione, quella inerente alla determinazione del momento di decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro alla luce della riforma operata dalla legge 92/2012 e dal d.lgs. 23/2015. Era tempo che si attendeva questa pronuncia, secondo la quale la prescrizione dei crediti retributivi decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, in omaggio una interpretazione favorevole ai lavoratori.
Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte è il seguente: “II rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015 mancando del presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilita. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
A questa conclusione la Corte addiviene con una motivazione di oltre trenta pagine, che esamina in dettaglio tutte le questioni giuridiche sottese alla questione proposta nel ricorso.
La fattispecie tipica sulla quale si impernia il ragionamento della Corte è quella relativa alla decorrenza del termine prescrizionale, con specifico riferimento alle rivendicazioni per differenze retributive sorte in costanza di rapporto, per le quali, secondo la disciplina originaria dell’art. 18, legge 300/1970, che era impostata sull’individuazione della tutela reale, ovvero reintegratoria, per la previsione di quella che è stata identificata quale regola generale, di indubitabile applicazione, la decorrenza operava anche nel corso del rapporto.
Infatti, il lavoratore , in corso di rapporto, in carenza di un regime di tutela “forte”, si riteneva fosse in una posizione di timore nei riguardi del datore di lavoro solo nei casi di assenza di una simile tutela reintegratoria. Tale lavoratore non era nelle condizioni – in caso di mancata applicazione della tutela reale – di far valere i propri diritti in corso di rapporto proprio per la paura di essere assoggettato a comportamenti ritorsivi e/o di rappresaglia ad opera del datore di lavoro. Da qui segue la necessità di un accertamento sulla esistenza di una tutela definibile come ripristinatoria, tale da dissuadere il datore di lavoro da comportamenti considerati superficialmente, senza una adeguata riflessione sulle conseguenze traumatiche di una reintegrazione accompagnata dal pagamento di una indennità risarcitoria.
In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge —n. 92 del—2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.
Il fulcro della questione, in altri termini, era proprio quello di qualificare il regime di tutela contro i licenziamenti, in relazione alla sua portata reintegratoria e forte, rispetto a quello introdotto dalla legge 92/2912 e dal d.lgs. 23/2015, che per dieci anni ha tenuto aperto il dibattito, attraverso l’intervento della giurisprudenza di merito, dei Tribunali e delle Corti d’Appello, che si era divisa sulle diverse interpretazioni prospettabili, ovvero quella della decorrenza della prescrizione in corso di rapporto o quella della decorrenza alla cessazione del rapporto, fatta propria dalla Suprema Corte con la sentenza in esame.
L’originaria suddivisione corrispondeva alla contrapposizione del regime di tutela debole vigente per le piccole imprese, fino a quindici dipendenti, rispetto a quello delle grandi aziende, nelle quali la prescrizione decorreva in corso di rapporto.
Il ragionamento della Corte segue tutti gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale susseguitisi negli ultimi quarant’anni, segnatamente le sentenze della Corte costituzionale 63/1966, 143/1969, 174/1972, analizzate e citate con dovizia di particolari e secondo riferimenti precisi ai passaggi motivazionali, richiamando altresì le ultime sentenze 194/2918, 59/2021 e 125/2022, che hanno eroso il perimetro di esclusione del regime reintegratorio, rendendolo più ampio e più certo, modificando le norme di legge nel senso di ampliare i casi di tutela reintegratoria.
La disciplina di riferimento, in tema di prescrizione, in relazione alla questione del decorso della stessa è contenuta negli artt. 2935 e 2948, n. 4, c.c., interpretati, secondo quanto detto sopra e corroborati dagli interventi del giudice delle leggi, secondo cui la decorrenza in corso di rapporto era di esclusiva pertinenza dei rapporti di lavoro incardinati nella tutela reale reintegratoria, creando un regime in forza del quale la prescrizione non decorreva in costanza di rapporto solo per i lavoratori non garantiti da un regime di stabilità.
Gli altri lavoratori, precisamente quelli per i quali si applicava l’art. 18 statuto lavoratori, il regime di stabilità del rapporto escludeva alla radice la possibilità di ravvisare una possibile pressione psicologica di debolezza contrattuale, sufficiente ad indurre il lavoratore a non far valere i propri diritti, per i quali la prescrizione decorreva anche in corso del rapporto di lavoro.
Il regime attuale di tutela contro i licenziamenti, così come prefigurato dalla legge Fornero 92/2012 e dal d.lgs. 23/2015, non offre alcuna garanzia di stabilità, posto che la tutela reintegratoria è ormai relegata ad eccezione, se confrontata alla tutela indennitaria, la quale ha assunto la parte preponderante dell’intero sistema.
La sentenza della Suprema Corte avrà un effetto non indifferente sul contenzioso giudiziario in materia di crediti retributivi, verificandosi il presupposto della possibilità di richieste nei riguardi di ogni datore di lavoro di tutte le differenze di retribuzione che, alla data di entrata in vigore della legge Fornero, non fossero già prescritte, ciò ovviamente qualora il rapporto di lavoro sia ancora in essere o sia cessato da un periodo inferiore ai cinque anni.
Pasquale Dui