La corsa alla presidenza di Confindustria sembra già partita. Si affollano i candidati, moltissimi. Molti vicepresidenti in carica, smaniosi di sostituire il loro capo, Carlo Bonomi, tra qualche mese fuori dalla confederazione. Alberto Marenghi, Emanuele Orsini, Maurizio Marchesini. A loro si sono aggiunti altri nomi. Quello di Enrico Carraro, presidente di Confindustria Nord Est, che in realtà si è limitato a fare un identikit del presidente che sarebbe necessario, peraltro in tante parti a lui somigliante. Ancora, Antonio Gozzi, attuale presidente di Federacciai, ligure, al quale si è affiancato un altro ligure, Edoardo Garrone, presidente di Erg, in passato presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria. Dietro questi ultimi due altrettanti ex presidenti di Confindustria, Antonio D’Amato per Gozzi, Emma Marcegaglia per Garrone.
Tanti nomi, ma la partita appare ancora alle prime battute. Sembra di assistere a una schermaglia preparatoria, di vedere ballon d’essai più che vere candidature. Quasi che ci sia un po’ di timore a scoprire le carte. Eppure, i tempi stringono, l’iter procedurale, modificato dall’ultima riforma, quella che porta il nome di Bonomi, il presidente della Commissione che la ha messa a punto, è molto complicato, ma rigido sui tempi. Prevede che chiunque voglia candidarsi alla presidenza debba dimostrare di avere un certo seguito all’interno del mondo confederale, indicare una serie di nomi di persone pronte a sostenerlo al momento del voto espresso dal Consiglio generale.
Ma anche questo non basterebbe, perché non è scomparso il ruolo dei tre “saggi”. Prima della riforma erano loro a svolgere tutto o quasi il lavoro. Sentivano, regione per regione, tutti i membri del Consiglio generale, si facevano un’idea della richiesta che saliva dalla base confederale e poi indicavano i nomi di chi poteva partecipare alla corsa finale. E anche adesso che c’è la possibilità di candidarsi restano loro a dover vagliare la capacità dei candidati a soddisfare le attese. E se a loro avviso qualcosa non funziona, possono anche azzerare il tutto e ripartire da nuovi nomi. Un processo lungo che non può essere accorciato.
Eppure, nonostante i vincoli, è proprio quanto sta accadendo. Ed è il sintomo di una grande incertezza, ma anche la consapevolezza, abbastanza diffusa nel mondo confindustriale, dei pericoli che l’istituzione corre. Che sono iniziati tanti anni fa, ma che sono diventati più evidenti durante la presidenza di Vincenzo Boccia, che non aveva un grande carisma, ma soprattutto era stato eletto alla fine di un duro scontro, che aveva lasciato la confederazione divisa in due, rendendo la sua presidenza molto debole. Per questo quattro anni fa si decise con grande entusiasmo di affidare la presidenza a Bonomi, che prometteva di far tornare Confindustria a splendere, portandola fuori dal cono d’ombra nel quale si era ritrovata.
Le speranze erano forti, Bonomi le aveva sapientemente determinate e nutrite, ma sono andate sistematicamente deluse. Gli ultimi quattro anni hanno visto Confindustria progressivamente spegnersi, scomparire dalla scena politica ed economica, mancare tutti gli appuntamenti, cadere su tutti i fronti. Una situazione di assoluto pericolo per un’istituzione che è stata forte negli anni, che ha fatto la storia delle relazioni industriali, è stata determinante per le grandi scelte economiche e ha poi perso ogni ruolo. Non ha più nemmeno il direttore generale, nei decenni sempre l’asse portante della confederazione. L’ultima, Francesca Mariotti, è stata demansionata dal presidente senza che si sia capito il perché.
È comprensibile che in questa situazione di difficoltà gli industriali si muovano con molta cautela. Un passo falso, una scelta azzardata potrebbero rivelarsi esiziali per la continuità di Confindustria, che potrebbe anche non scomparire, ma certamente perdere ruolo e centralità per un tempo molto lungo. A Confindustria serve ora una vera ricostruzione, più di una ripartenza, devono essere ricostituiti i valori fondanti dell’istituzione, vanno individuati e presidiati gli obiettivi di fondo della sua possibile azione. È necessario che le relazioni industriali tornino al centro dell’azione confederale.
Parliamo spesso dell’esigenza di un nuovo patto sociale, che deve essere non solo auspicato, come ha fatto Bonomi, ma perseguito e realizzato con grande forza e sapienza. Il patto della fabbrica, l’ultimo grande accordo perseguito dalle parti sociali, è del febbraio del 2018, voluto con caparbietà da Maurizio Stirpe, vicepresidente con delega al lavoro. Un accordo molto interessante, con una ampia veduta, dal quale sono passati pochi anni ma sembra che sia passato un secolo per le tante cose che nel frattempo sono accadute. Adesso un nuovo accordo quanto meno sulla struttura del salario è indispensabile per assicurare lo scorrere tranquillo della stagione contrattuale ormai alle porte. Le federazioni di categoria sono forti e volenterose, ma questo impegno travalica la loro competenza, è la confederazione che deve proporre e realizzare un vero accordo. E lo stesso va detto per i problemi economici, per le grandi transizioni che incombono, per gli equilibri sociali che vanno tutelati. Confindustria non può arrivare impreparata a queste scelte, le serve un presidente all’altezza degli impegni che si deve assumere. Una scelta difficile, ma urgente.
Massimo Mascini