Roma, quartiere Flaminio via Luigi Canina, numero civico 6. Accanto al portone, una targa ricorda che qui, al primo piano, nell’abitazione di Federico Comandini, dove ora c’è uno studio medico, il 4 giugno del 1942 “riuniti clandestinamente” Vittorio Albasini, Piero Calamandrei, Guido Calogero, Alberto Damiani, Ugo La Malfa, Franco Mercurelli, Mario Vinciguerra, Edoardo Volterra e lo stesso Comandini “hanno fondato il Partito d’Azione”.
Giustizia e Libertà, il movimento creato da Carlo Rosselli, indossava le vesti, con un po’ di iniziale confusione, di un novello raggruppamento. Anche se l’emblema di GL, come ricorda Emilio Lussu, continuò ad essere esibito sulle bandiere dei gruppi partigiani che a questi ideali si richiamavano.
Sono passati ottant’anni. La creatura politica nata quel giorno (in realtà il parto fu plurimo perché le riunioni si susseguirono fino a luglio in varie città) ebbe vita breve, morì il 20 ottobre del 1947, lacerata dalla scissione tra l’ala socialista e quella repubblicana, ma ha lasciato un’eredità di tale valore che non è ancora possibile valutarla in tutta la sua cospicuità. Una cornucopia inesauribile. “Punto di riferimento di un’altra Italia che non è stata, ma potrebbe essere”, secondo la definizione di Giancarlo Tartaglia, autore di approfonditi studi sull’argomento.
Qualcuno, ogni tanto, tenta di accaparrarsene una fetta con improbabili e nebulosi richiami. Lo fa, periodicamente, Eugenio Scalfari, mischiando socialismo liberale e liberalsocialismo, tanto da indurre uno storico serio e appassionato come Paolo Bagnoli ad ironizzare sul “reato di confusione culturale”, escludendo per il fondatore di Repubblica ogni attenuante. Ora tocca a Carlo Calenda, il quale dimentica, o non sa, che la forza rivoluzionaria dell’originario programma rosselliano è inconciliabile con qualsiasi posizionamento più o meno centrista, moderato, efficientista. Poi ci sono quelli, tipo Ernesto Galli Della Loggia, o prima di lui Augusto Del Noce, che, al contrario, vedono ovunque il fantasma azionista e lanciano anatemi contro l’incubo dell’intransigenza etica.
Coniugare giustizia sociale e piena democrazia è un obiettivo talmente arduo che ogni volta torna l’ironico commento di Benedetto Croce sull’impossibile esistenza di un ircocervo. Eppure, la tempra morale dei protagonisti di allora e la devastazione dell’oggi impongono uno sguardo sul futuro che prenda coraggio da quel passato.
Vale per la politica, vale per il sindacato. Quanto resta degli insegnamenti di Vittorio Foa e di Bruno Trentin? Giovanni Russo, in un breve saggio, ricordava che durante il congresso del febbraio 1946, si scontrò proprio con il futuro segretario generale della Cgil: “Io partecipai come rappresentante del movimento giovanile del Sud, mentre lui rappresentava quello del Nord Italia. Trentin insisteva sulla necessità di legare il PdA alle masse operaie mentre io, sotto l’influenza lamalfiana, pensavo che bisognasse mantenere una completa autonomia. Guido Calogero riuscì ad evitare che lo scontro degenerasse in una crisi”.
Passioni, sogni, utopie.
Carlo Levi giudicava “fine di un’illusione” la caduta del governo presieduto da Ferruccio Parri e definiva l’integerrimo, coraggioso, carismatico comandante partigiano “un eroe mazziniano”: “Questi uomini alti e puri scherzano, ridono, amano come tutti gli altri. Ma c’è, nel fondo del loro essere, come una specie di disperazione cosmica. La vita è per loro un dovere. Ora me lo vedo vicino, con tutto il dolore del mondo ma anche con tutta la morale energia del mondo, incisa nel volto”.
La targa di via Canina è stata collocata il 4 giugno del 2017, in occasione del 75° anniversario. Durante la cerimonia, il direttore di Critica Liberale, Enzo Marzo, rinnovellava l’obiettivo di “una società laica, democratica, progressista e pluralista”. Sono passati altri cinque anni. E siamo ad ottanta. Un compleanno che, ancora una volta, vedrà festeggiamenti estremamente minoritari, di nicchia. Riunioni quasi clandestine, come nel 1942.
Eppure, constatava Norberto Bobbio: “L’azionismo, nonostante tutto, è più vivo che mai”.
È la capacità e la voglia di organizzare il pessimismo.
Ce ne sarebbe molto bisogno.
Marco Cianca