Stanno cambiando in maniera sostanziale i contenuti della contrattazione. Sono mutati, infatti, i parametri di fondo che regolano l’azione negoziale. L’attenzione per lo più era sempre concentrata sull’occupazione e sulla retribuzione, questi erano i criteri che si tenevano presenti quando si preparavano le piattaforme rivendicative e quando si svolgevano le trattative. Si cercava di massimizzare l’occupazione e di mantenere invariato il potere di acquisto dei salari. Adesso qualcosa è cambiato. Il benessere del lavoratore è diventato centrale, la persona, con i suoi desideri, le sue passioni, le sue necessità, hanno occupato il centro della scena con un nuovo protagonismo.
Non è accaduto in un giorno, i prodromi sono lontani, legati a una serie di trasformazioni della società. Ma certamente il Covid ha dato un’improvvisa accelerazione al fenomeno. La pandemia ha costretto infatti a cambiare l’organizzazione del lavoro, modificando in profondità le abitudini, invertendo le priorità. È esploso, per necessità non per virtù, il lavoro da remoto e le abitudini di vita e di lavoro, soprattutto l’equilibrio tra queste due realtà, hanno subito un’alterazione profonda. Le persone si sono abituate a una diversa libertà e hanno mostrato di non voler tornare indietro. Lavorare da remoto non è un cambiamento di poco conto, costringe a modificare le proprie abitudini, impone di valutare il lavoro sulla base dei risultati, non più sul tempo prestato, costringe il management a una trasformazione profonda. Eppure, è quello che è avvenuto.
E così il tempo, il tempo di lavoro e la sua regolazione, è diventato un elemento centrale nella contrattazione. Sono partite le sperimentazioni, a volte negoziate con il sindacato, altre volte decise in autonomia dalle imprese. Un grande campo nel quale un po’ tutti, sindacati e aziende, si sono e si stanno cimentando, alla ricerca di equilibri di vita e di lavoro che consentano di rispondere alle esigenze e alle richieste di entrambe le parti. Alla base di queste sperimentazioni ci sono sempre le richieste, forti, che vengono dalla base dei lavoratori, che vogliono cambiamenti e non sono disposti a rinunciare. Lo provano le esperienze di Great resignation e di Quiet quitting: se non si può ottenere la forma di lavoro che si vuole sono pronte le dimissioni o, se queste non sono possibili, un tirare i remi in barca, fare il minimo indispensabile, che è poi un male peggiore.
Le aziende, afflitte in modo incredibile dai problemi di recruiting, alimentati dall’inverno demografico che stiamo vivendo, non hanno respinto queste richieste. L’attenzione alla persona è diventata un’abitudine e sulla persona sono state elaborate le strategie aziendali, come dimostra lo Statuto della persona sottoscritto da Enel e dai sindacati di settore l’anno passato. Un percorso difficile, perché cambiare è sempre faticoso, si deve aprire il cuore prima della mente e perché in questo modo l’organizzazione del lavoro, da sempre prerogativa gelosamente custodita dalle aziende, è diventata improvvisamente terreno contendibile.
Le sperimentazioni, per quanto generose e cariche di capacità inventiva, però non sono da sole sufficienti. Il rischio è che restino appunto delle prove di cambiamento, interessanti, ma non in grado di creare un sistema strutturato operativo coerente e funzionante. Tutte queste innovazioni devono essere in grado di coordinarsi tra loro, devono fare sistema, per cambiare davvero le abitudini di vita e di lavoro. A cosa serve modificare gli orari di lavoro, come si sta cercando di fare, anche in maniera forte, come riducendo a quattro giornate l’impegno settimanale, se contemporaneamente non cambiano le abitudini, e gli orari, delle città e delle sue strutture amministrative? È necessario fare sistema, collegare tra loro tutte le diverse innovazioni, saper guardare lontano, creare un ponte con il futuro, arrivare a un vero senso di comunità.
Non è facile, ma è un percorso inderogabile. Lo ha messo in evidenza con grande chiarezza lo svolgimento di un seminario di studi che Il diario del lavoro ha organizzato nei giorni scorsi proprio per capire quali debbano essere le trasformazioni da attuare per poter accogliere, senza troppi traumi, i cambiamenti che si stanno verificando. Capi del personale di grandi aziende, sindacalisti, accademici, hanno convenuto che le sperimentazioni dal basso, per quanto indispensabili, hanno senso se si inseriscono in uno sforzo più profondo, più coinvolgente; se si crea una vera cultura della disponibilità, se si ragiona in termini complessivi, senza trascurare nulla.
Le aziende non sono restie a percorrere questa strada, che deve coinvolgere però non solo le contrattazioni aziendali, ma anche quelle nazionali, ma pongono con chiarezza due condizioni: la prima è che non si perda mai di vista l’esigenza di mantenere, e se possibile aumentare, i livelli di produttività, quindi la competitività; la seconda è evitare le discriminazioni, che possono a volte essere inevitabili, ma non devono certo aumentare. Due indicazioni precise, che il sindacato non sembra avere difficoltà a seguire.
Massimo Mascini