Politique d’abord, e cioè la politica innanzitutto o, come suggerisce il vocabolario Treccani, “politica anzitutto”. Quando viveva in esilio in Francia, l’allor giovane dirigente socialista Pietro Nenni orecchiò questo motto – che, originariamente, era contenuto in un libro del politico nazionalista Charles Maurras – e, nel 1930, lo fece suo. Volendo intendere, con quella formula, che, per un partito politico che “sa quel che vuole” e che “quel che vuole lo vuole sul serio” la strategia viene sempre prima della tattica.
Una trentina d’anni dopo, il leader cinese Mao Zedong, celebre coniatore di formule, lanciò lo slogan “la politica al primo posto”. Il concetto era simile, ma, questa volta, l’idea era sbagliata. Perché ciò che pensava Mao era che la politica, cioè il Partito comunista da lui guidato autocraticamente, dovesse governare l’economia anche a costo di non tenere in nessun conto i richiami alla difficile realtà dello sviluppo fatti da qualche esperto di problemi economici. Con risultati ovviamente disastrosi per le popolazioni cinesi, del tipo di quelli sperimentati col fallimento del cosiddetto “Grande balzo in avanti”.
Nel bene e nel male, vecchi tempi. Novecento, insomma, Perché adesso, nel nuovo radioso millennio, qui da noi, in Italia, non c’è più nessuno, almeno dalle parti di Palazzo Chigi, che coltivi queste vecchie ubbie. Da quando si è formato il Governo del Cambiamento, a tutti, a partire dal portavoce Rocco Casalino, è chiarissimo che al primo posto non ci deve stare la politica, ma sempre e solo la comunicazione.
Il che, dopotutto, non è sorprendente, se solo si tiene conto del fatto che il Movimento 5 Stelle – cioè la forza politica di maggioranza relativa all’interno della maggioranza di Governo – è stato fondato da due signori che essendo, l’uno, un consulente di comunicazione e, l’altro, un comico teatrale (e anche un po’ televisivo), avevano molta più dimestichezza con la comunicazione, in tutti i suoi variegati e complessi significati, che non con la politica.
Prendete, ad esempio, questa storia degli edili. In gennaio, i tre sindacati della categoria – e cioè Filca-Cisl, Fillea-Cgil e Feneal-Uil – proclamano unitariamente lo sciopero generale per la giornata di venerdì 15 marzo. E si tenga presente che la controparte cui è rivolta questa iniziativa di lotta non sono le associazioni imprenditoriali dei vari sub settori del mondo delle costruzioni, ma proprio il Governo in prima persona personalmente, come direbbe Catarella.
Lo scopo dei sindacati, infatti, era politico, più che strettamente sindacale. Essi miravano, e mirano, a sbloccare i cantieri e a far ripartire gli investimenti e il lavoro in un settore che, come ognun sa, è sempre stato considerato come un volano di sviluppo e che, negli anni della crisi, ha perso oltre 600 mila addetti. In altre parole, quel che i sindacati chiedevano con lo sciopero, e con la contemporanea manifestazione nazionale a Roma, era, ed è, appunto, un cambio di linea in termini di politica economica. E lo chiedevano a un Governo che – come ha detto Alessandro Genovesi, segretario generale della Fillea, concludendo il comizio a piazza del Popolo – ha ridotto gli investimenti, in questo suo primo anno, di ben 8 miliardi.
Ora si tenga presente che quando si dice “edili”, in termini sindacali, non ci si riferisce solo a quei signori che, muniti di casco, fanno bella mostra di sé sulle impalcature di qualche palazzo in costruzione, oppure imbiancano le pareti di un appartamento in corso di ristrutturazione. Quando si parla di costruzioni ci si riferisce a un settore molto ampio in cui ai lavoratori e alle imprese che, materialmente, costruiscono gli edifici, si assommano non solo quelli che fanno strade e ponti (e qui saremmo già a qualcosa come 1 milione 200mila addetti), ma anche quei sub settori dell’industria manifatturiera che producono gran parte dei materiali poi utilizzati nelle stesse costruzioni o nell’arredamento di case e uffici. E quindi i produttori di cemento, mattoni, tegole, calcina e asfalto, ma anche di tutti i materiali lignei e di tutti i manufatti in legno. E così, senza aver ancora neanche sfiorato quell’ampio indotto fatto di siderurgici che producono il tondino per il cemento armato o di chimici che produco sanitari e piastrelle per bagni e cucine, stiamo già parlando di un paio di milioni di lavoratori. Insomma, qualcosa cui non sarebbe male concedere un po’ di attenzione.
Ebbene, quando, nel gennaio scorso, i sindacati degli edili proclamarono la loro giornata di lotta per venerdì 15 marzo, ad alcuni parve che si trattasse di una data troppo lontana, data l’urgenza dei problemi vissuti nel settore. Ma i dirigenti delle categorie interessate risposero, in tutta calma, che il lasso di tempo così definito, pari a un paio di mesi, avrebbe consentito ai sindacati stessi di organizzare le cose per bene, facendo precedere l’iniziativa unitaria di lotta da una campagna di assemblee volte a mobilitare capillarmente la categoria.
E così è stato. Ma, mentre Genovesi (Fillea), Panzarella (Feneal), Turri (Filca) e gli altri dirigenti della categoria battevano i cantieri per fare le loro assemblee, a Palazzo Chigi, così come al Ministero dello Sviluppo Economico o a quello delle Infrastrutture, erano in tutt’altre faccende affaccendati. Perché si sa, gli impegni di Governo sono gravosi, e oggi c’è la Tav, domani i gilé gialli (quelli francesi, ben s’intende) e dopodomani quel che resta del ponte Morandi.
E così, passa un giorno e passa l’altro, siamo arrivati improvvisamente a metà marzo, e cioè a ridosso della giornata di lotta degli edili, senza che nessuno nel Governo giallo-verde avesse avuto il tempo non si dice di elaborare, ma magari anche solo di abbozzare, una risposta politica alle richieste politiche dei famosi edili.
Ma niente paura. Perché adesso c’è la comunicazione. E se gli strateghi del Governo dormicchiano, i consulenti attivi dalle parti di Casaleggio junior sono attivi e svegli. Ed eccotela qua, la risposta comunicativa. Giovedì 14 marzo, il Governo fa sapere che ha convocato i sindacati per la tarda mattinata di venerdì 15. Così, giusto in tempo per nascondere con la notizia della convocazione quella dell’imminente sciopero. E, poi, per attenuare la notizia della riuscita manifestazione – che avrebbe inevitabilmente trascinato con sé dei messaggi critici – con quella dell’avvenuto incontro. Contemporaneamente, il Governo ha scoperto la questione-cantieri, e Conte, Di Maio e Toninelli hanno cominciato a fare a gara a chi faceva più dichiarazioni in materia, negando che esistano opere pubbliche bloccate e progetti fermi.
Idee furbe, indubbiamente. Ma il fatto è che con la comunicazione, al massimo, si può vendere un prodotto. Il che, lì per lì, non è poca cosa. Ma se poi il prodotto risulta di scarsa qualità, il fatto che molti lo abbiano sperimentato può avere conseguenze negative anche per i produttori. In altre parole, con la comunicazione si può vincere una campagna elettorale. Ma, a occhio e croce, questo strumento non basta per governare un grande paese industriale. E poi si sa, gli edili, sotto quei loro caschi, hanno una testa dura.
@Fernando_Liuzzi