I referendum sul lavoro della Cgil dunque si faranno. Dopo mesi di discussione interna, a tratti anche tesa e contrastata, martedì 27 l’assemblea generale della confederazione ha approvato un testo col quale, tra l’altro, delega alla segreteria il compito di promuovere un numero ancora imprecisato di quesiti sul lavoro. I quesiti potrebbero andare da tre o quattro fino a sei: la questione è intricata, perché per ottenere quello che la Cgil ha in mente, ovvero lo smantellamento delle leggi sui licenziamenti e sulla precarietà, nonché sugli appalti, è necessario intervenire su un notevole numero di provvedimenti legislativi. Compito che è stato affidato alla Consulta Giuridica, che porterà a termine il lavoro entro il 31 marzo. Poi, ai primi di aprile, partirà il percorso referendario vero e proprio, presentazione dei quesiti, raccolta firme, eccetera. Con l’obiettivo di andare alle urne nella primavera 2025.
“Vogliamo fare rumore, ridare voce al mondo del lavoro e contribuire alla ricostruzione di una cultura politica e sociale che metta al centro la rappresentanza del lavoro e la dignità̀ delle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare”, si legge nel testo del documento che elenca le varie tappe della campagna. La campagna referendaria, si legge ancora, “restituendo la parola all’insieme delle cittadine e dei cittadini, acquista, soprattutto in una fase di disillusione verso la politica e di disaffezione al voto, un’ulteriore valenza di stimolo e di rilancio della partecipazione democratica”.
Ai referendum sul lavoro si aggiungono poi altre due iniziative forti: un ulteriore referendum specifico per abrogare l’autonomia differenziata, da presentare non appena il Ddl Calderoli verrà approvato definitamente e, soprattutto, quella che la Cgil definisce ‘’la madre di tutte le battaglie”: ovvero il “contrasto alla riforma sul premierato”, di cui, promette la confederazione, ‘’saremo protagonisti’’. Un iter più̀ lungo e complesso, sul quale si dovrà̀ celebrare il referendum confermativo, ma su cui la Cgil si è già cimentata, e si potrebbe dire con successo, nel 2016, quando contribuì con centinaia di iniziative alla campagna per il No alle riforme di Matteo Renzi. Infine, a più lunga scadenza ancora, ci saranno numerosi progetti di leggi di iniziativa popolare, a partire dalla rappresentanza. Il tutto, condotto assieme alle associazioni che fanno parte del progetto “la via maestra”, con le quali la Cgil si confronterà sabato prossimo a Roma.
Il più complicato, al momento, sembra il percorso dei referendum sul lavoro. I vari tentativi su questo terreno, portati avanti da soggetti diversi nei decenni, non hanno mai dato risultati. Fallì quello di Rifondazione, e stiamo parlando proprio della notte dei tempi, fallirono quelli dei radicali, ma fallirono anche i quesiti presentati dalla Cgil nel 2016 per contrastare il Jobs Act. Uno fu bocciato dalla Consulta, un altro, sui voucher, fu reso nullo dal Governo Gentiloni, come ha ricordato oggi la responsabile lavoro del Pd, Maria Cecilia Guerra: ‘’ In quell’occasione non si arrivò al referendum ma al superamento dei voucher. Poi quella storia ha avuto altre declinazioni che non condividiamo. Ma – ha proseguito – il quesito referendario ha la funzione di dire ‘parliamo di un tema importante’ e il tema dei licenziamenti lo è”. Secondo l’esponente del Pd, infatti, i referendum abrogativi segnalano un problema più che risolverlo, ma in ogni caso, afferma, “appoggeremo qualsiasi referendum di qualsiasi soggetto solo dopo che avremo visto i quesiti”. Sui licenziamenti la normativa attuale è insufficiente, ha aggiunto Guerra, ricordando che “ci sono state delle sentenze della Corte Costituzionale, ci sono disparità di trattamento. E noi siamo molto sensibili anche a questo tema”. Dunque, se i referendum della Cgil hanno la funzione di richiamare l’attenzione su un tema così serio, ben vengano. Ma prima, appunto, “bisogna vedere i quesiti: l’iniziativa referendaria è della Cgil, non siamo noi che lo stiamo promuovendo”. Va comunque considerato che un referendum sul jobs act potrebbe creare non poco imbarazzo nel Pd, essendo pur sempre il partito che promosse, e approvò in parlamento, la riforma del lavoro varata dal Governo Renzi del 2015.