Non saprei dire con certezza – come ha pensato e scritto il mio amico Gaetano Sateriale – se vivere e lavorare nel palazzo di Corso d’Italia, sede della Cgil nazionale, produca tra i suoi inquilini silenzi di comodo determinati dalla vicinanza al “manovratore”, ossia al segretario generale e al vertice esecutivo della confederazione. Sono abituato, per formazione ed esperienza, alla battaglia politica condotta a viso aperto e nella chiarezza delle posizioni, quale che sia il prezzo da pagare alla libertà del confronto. Spero che questo spirito, che ha per lungo tempo caratterizzato la vita interna della Cgil e ha permesso il dispiegarsi di discussioni e visioni importanti non solo per il sindacato ma per l’insieme della sinistra italiana, non venga meno.
Neanche saprei dire con certezza se oggi per la Cgil è davvero così serio il rischio di vedere diffondersi tra le sue fila, in maniera irrimediabile, gli esiti finali dei virus del populismo e dell’antipolitica. Indubbiamente il rischio esiste, ma personalmente continuo a pensare che il nostro codice genetico contenga ancora gli anticorpi per impedire che esso divenga realtà.
Ciò su cui concordo senza esitazione con Sateriale è il riconoscimento dell’esigenza che, chiuso il congresso e sciolto il nodo della leadership, la nostra organizzazione definisca il piano di azione e le modalità operative per dare attuazione alle decisioni congressuali, presentando al paese le proposte e le misure concrete per affrontare la grave situazione economica e sociale italiana e per indicare a un mondo del lavoro spaventato e insicuro una nuova prospettiva per il futuro.
Da questo punto di vista, mi pare che i messaggi e gli atti concreti fin qui messi in campo da Maurizio Landini vadano nella direzione giusta. Il segretario generale della Cgil ha più volte ricordato che l’Italia ha bisogno di un governo autorevole e in grado di decidere sulle principali questioni, senza oscillazioni né tentennamenti. Così come ha segnalato la necessità che il governo affronti la questione sociale, i problemi del lavoro e delle pensioni, i temi della povertà e delle disuguaglianze, gli interventi sulla struttura e sull’equità del prelievo fiscale, in un rapporto di corretto confronto con i sindacati e le rappresentanze delle imprese. Alle stesse imprese, oltre che ovviamente al governo, Landini ha ricordato che l’Italia ha un drammatico problema di caduta degli investimenti pubblici e privati e che questa circostanza è alla base della perdurante crisi di competitività del paese, di cui sono esempio evidente i dati negativi sulla produzione industriale, il sostanziale blocco della crescita e la conferma della tendenza alla recessione. Una situazione che, combinata alla crisi del potere d’acquisto dei salari, avrebbe bisogno di una terapia d’urto, fondata su una qualità nuova della relazione tra lo Stato, il lavoro e l’impresa, in grado di far superare all’Italia gli schemi imposti dal pensiero politico ed economico prevalente negli ultimi decenni, pensiero che ha individuato nella qualità del lavoro e dei suoi diritti un ostacolo per le possibilità del paese e che ha, di conseguenza, giocato la partita della competizione su salario e condizioni di lavoro al ribasso, come chiave del successo del sistema italiano. Una scommessa con tutta evidenza persa e che ci relega agli ultimi posti in ogni classifica europea sugli indicatori economici e sui fattori di competitività più rilevanti.
Ora, a me pare che dal mondo delle imprese qualche segnale di maggiore attenzione e qualche reazione di segno positivo rispetto alle proposte del sindacato stiano arrivando. Ritengo che questo si possa ascrivere anche alla ritrovata, e spero durevole, unità tra i sindacati e alla forza in parte inaspettata della manifestazione del 9 febbraio a piazza San Giovanni, i cui temi non parlavano e non parlano solo alla condizione del lavoro ma al futuro dell’intero paese, di cui il sistema produttivo è parte essenziale. Quanto al governo, credo si possa dire che la percezione prevalente continui ad essere quella della inadeguatezza, della impreparazione culturale e politica, della mancanza di obiettivi e di visione strategica, della distanza “antropologica” dall’idea di confronto e di dialogo sociale. Vedremo gli esiti dei tavoli aperti e di quelli annunciati, certo. Tuttavia, l’esperienza fin qui realizzata dal governo Conte-Salvini-Di Maio non induce a nutrire particolari speranze di ravvedimento o di cambiamento di impostazione.
Dunque, è evidente che per la Cgil e, in generale, per tutto il sindacato italiano si pone da un lato il tema della qualità e della continuità dei rapporti con il governo e dall’altro lato la necessità di una iniziative che, a meno di tre mesi dalle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, parli all’insieme delle forze politiche italiane, e in particolare ai partiti della sinistra che continuano a sostenere il progetto europeo e cercano la modalità migliore per presentarsi davanti al corpo elettorale. Sono convinto che la piattaforma unitaria elaborata dal sindacato per la discussione con il governo sia una base di partenza importante per la fase che si avvierà con l’incontro convocato dal ministro Di Maio per il prossimo 13 marzo. Sulle proposte contenute in quel documento bisognerà consolidare l’orientamento comune di Cgil, Cisl, Uil e tenere la barra dritta, evitando di prestare il fianco a possibili tentativi di dividere il fronte sindacale.
Per quanto riguarda in modo specifico la Cgil, la mia opinione è che il lavoro di elaborazione culturale e politica degli ultimi anni ha tracciato un sentiero che occorre percorrere con atti e decisioni conseguenti. Il nuovo Piano del lavoro del 2013, l’impegnativo e innovativo percorso che ha portato alla definizione della proposta di legge di iniziativa popolare sulla Carta dei diritti universali delle lavoratrici e dei lavoratori, il contrasto al Jobs Act e la battaglia referendaria, tutto ciò ha permesso alla Cgil di ristabilire momenti di più intensa connessione con il proprio insediamento e con il popolo del lavoro. Credo che dobbiamo avvertire come impegno prioritario l’aggiornamento necessario del Piano del lavoro e l’iniziativa per la concretizzazione della Carta dei diritti, se non vogliamo che le giuste intuizioni che ne sono alla base restino tali, senza trasformarsi in risultati tangibili. Al carisma, alla popolarità, alla capacità di suscitare entusiasmo da parte dei leader di un sindacato, è necessario affiancare la realizzazione concreta degli obiettivi annunciati. Solo così si può produrre quel benefico bilanciamento di pragmatismo e radicalismo che a mio parere deve costituire la caratteristica prevalente del sindacato del tempo presente, del ventunesimo secolo.
Credo anche che quanto sta avvenendo nel mondo reale e non in quello virtuale dei social e del web – dalla nuova rivoluzione industriale al lavoro nelle piattaforme, dalla necessità di far ripartire i cantieri, le fabbriche e tutta l’economia italiana al riemergere di una grande questione salariale, dalla leva della formazione professionale alla riorganizzazione degli orari e dei tempi di lavoro – apra nuove possibilità e prospettive per la contrattazione collettiva. Possibilità e prospettive che dovranno sempre più assumere una proiezione e una dimensione di natura europea, per avere efficacia e produrre risultati. C’è da augurarsi che l’avvio della discussione sulle elezioni europee abbia tra i suoi effetti collaterali quello di stimolare la riflessione su questo aspetto, decisivo per il futuro del progetto europeo e del ruolo del lavoro nell’Europa diversa e migliore che vogliamo costruire.
Fausto Durante
Cgil nazionale