Il sindacato è impegnato in queste ore in una difficilissima partita. La chiusura della vertenza di Pomigliano con la Fiat, quale che ne sia l’esito, influirà sui destini non solo delle relazioni industriali del nostro paese, ma del futuro del sindacato e in generale delle strutture di rappresentanza del nostro paese. Ed è un destino che sia ancora una volta la Fiat al centro di una vertenza che cambia radicalmente il senso delle relazioni industriali.
Il paragone che viene immediato infatti è quello tra questa vertenza e quella, sempre con la Fiat, del 1980. Allora il sindacato prese una batosta memorabile, che ne cambiò la storia, perché si trovò impreparato ad affrontare un problema così grave come quello che gli poneva l’azienda. La Fiom, sempre la Fiom, non si era accorta che il mondo cambiava attorno, che le urgenze, dei lavoratori e della società erano totalmente cambiate rispetto al passato. Continuava a vivere come se gli anni settanta dovessero continuare all’infinito, se la spinta del 1969, il mitico autunno caldo, non finisse mai.
Non era così, ma la Fiom e la Cgil, che non aveva la forza di opporsi al suo forte sindacato dei metalmeccanici, agivano come se nulla intanto fosse successo, se non fossero intervenute due pesantissime crisi petrolifere, se la concorrenza internazionale non fosse diventata sempre più agguerrita e pericolosamente vicina. Pensavano che si potesse andare avanti con le stesse regole, o meglio con il disordine che caratterizzava il lavoro industriale in quegli anni.
Sbagliavano e il colpo che presero, la Fiom, la Cgil e tutto il sindacato, fu fortissimo.
Adesso sta accadendo la stessa cosa. La Fiom sembra non essersi accorta della crisi economica, dell’esaurirsi di quasi tutte le vie di investimento, della globalizzazione, ancora una volta della durissima concorrenza che le nostre aziende subiscono in tutti i mercati internazionali, e in primo luogo in quello interno.
E si permettono di dire di no alla Fiat che, in questo deserto di proposte di investimenti, è pronta a mettere sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco 700 milioni di euro, per portare in Italia la produzione della Panda adesso affidata a una fabbrica polacca. Non è un bluff, perché questo investimento rientra in un quadro più generale che prevede il raddoppio della produzione di autoveicoli in Italia. Un miraggio per il nostro Sud disastrato. Un miraggio per Pomigliano, uno stabilimento che tra diretti e indiretti occupa ben 15mila lavoratori. Se la Fiat se ne andasse, se cedesse alle offerte senza rimesse dei polacchi, pronti a tutto per non perdere quella produzione, per Pomigliano, Napoli e la Campania sarebbe un vero disastro.
C’è un contraccambio, è vero, e anche pesante. C’è il rischio di rinunciare, non si sa per quanto, ad alcune conquista storiche del nostro sindacato. Ma c’è tempo e tempo. Qualche anno fa ho avuto il privilegio di partecipare, e poi trarne un libro, a una lunga conversazione tra Bruno Trentin e Luis Anderson, un sindacalista del Sud del mondo. E all’illuminato Trentin che gli parlava dei diritti dei lavoratori Anderson rispondeva ricordandogli che la prima cosa è quella di sfamarsi e sfamare i propri figli, popi quella di avere un lavoro, infine quella di conquistarsi i diritti.
Si dirà che non siamo alla fame, ed è vero, ma il dualismo tra Nord e Sud è così forte e aumenterebbe verticalmente se dovesse vanire meno anche Pomigliano, che il primo dovere è quello di guardare oltre il proprio naso.
Epifani lo ha capito e a Levico ha fatto importanti aperture. Del resto lui sa bene che il caso Fiom ormai è maturo in casa Cgil. Lo è perché si deve sapere una volta per tutte dove va il più grande sindacato del nostro paese, se ha una condotta unitaria o se invece è un carrozzone dove ciascuno marcia per proprio conto. La Fiom resta un grandissimo sindacato, con un passato dietro le spalle che gli fa onore, ma ha il dovere di non disperdere questo passato chiudendo gli occhi davanti alla realtà. Ma la posta in gioco non coinvolge solo la Fiom, la Cgil e il sindacato italiano si trovano a un punto di svolta. Il voto operaio alla Lega è stato un campanello d’allarme preciso, a significare che non esistono realtà immutabili. Gli operai del Nord si sono sentiti poco rappresentati dai partiti storici della sinistra e gli hanno voltato le spalle. Quanto ci metterebbero a girarle anche al sindacato se lo trovassero cieco e sordo quando sono in ballo i loro interessi? Forse non conviene a nessuno fare questa prova, perché potrebbe cadere qualche pilastro della nostra democrazia.
E non è una via d’uscita quella di attendere la decisione dei lavoratori, da far esprimere con un referendum. Perché il sindacato ha il dovere di indicare lui la strada da percorrere. Essere classe dirigente significa sapersi prendere le proprie responsabilità, avere la capacità di forzare il destino con decisioni anche difficili, ma capaci di rispondere ai problemi esistenti.
Massimo Mascini