“Il peggior nemico? Non le malattie ma i burocrati”. Luigi Michelangeli a fine dicembre va in pensione. Porta con sé storie di vita e di morte, di guarigioni e di occhi pietosamente chiusi, di visite e di confidenze. La condizione umana vista con gli occhi del dottore. I ricordi gli rompono la voce, in un commosso singulto. Nato a Ripatransone, terra marchigiana di arte, di cultura, di storia, da giovane si è trasferito a Roma, dove, completati gli studi universitari, ha aperto il suo studio in un quartiere di frontiera, alla periferia della città. Nel corso degli anni, la sua passione professionale ha dovuto fare i conti con la rapacità dei politici e la stolidità degli amministratori. Una lotta impari.
Per raggiunti limiti di età, avrebbe potuto abbandonare i suoi mille e trecento assistiti già dodici mesi fa ma scelse, come tutti coloro che nonostante le avversità amano il proprio lavoro, di procrastinare la quiescenza. Non poteva prevedere che il 2020 sarebbe stato sconvolgente. E ora lascia con un senso di tristezza, di impotenza, di rabbia, dopo aver lottato, “a mani nude perché non ci hanno nemmeno fornito i guanti”, contro il Coronavirus.
È uno dei cinquantamila medici di base che nel corso del tempo sono stati progressivamente messi in fureria per catalogare come pratiche i pazienti, e all’improvviso spediti in prima linea, con l’ordine di uscire dalle trincee e andare all’assalto di un nemico invisibile. Ora tutti ne hanno riscoperto l’importanza. “Il loro ruolo è cruciale”, riconosce Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. “Dobbiamo metterli in condizioni di fare bene il proprio mestiere”, proclama il sindaco di Milano, Beppe Sala. Ma perché non ci hanno pensato prima? Perché li hanno ridotti a impiegati costretti a firmare ricette e certificati? E lo sanno che entro il 2028 ne andranno in pensione oltre trentatremila?
I giovani che scelgono questa strada sono sempre di meno. Non è gratificante, equivale a giocare in serie B. Già agli inizi si vede la differenza: il compenso durante il tirocinio di specializzazione è di circa 800 euro lordi, un terzo di quanto percepiscono i colleghi delle altre, più ambite, branche. All’inizio, erano i medici della mutua, già messi alla berlina da Alberto Sordi. Ora li chiamiamo di base, con una visione piramidale che li vede sempre in fondo, o di famiglia, in un’accezione cattolica. Per il servizio sanitario sono Mmg (medici di medicina generale), uno dei tanti acronimi che hanno messo in gabbia Ippocrate e il suo giuramento. Usl, Asl, Ats e ora le neonate Usca, le unità speciali di continuità assistenziale.
Tante sono anche le sigle sindacali del settore, spesso in lotta fratricida, a riprova di quanto le degenerazioni del pubblico impiego abbiano ucciso ogni velleità professionale. “Invece di auscultare il paziente e sollecitarlo a dire “trentatré”, dobbiamo chiedere al dirigente di turno come riempire i moduli con i quali ci inondano”, riassume sconfortato Michelangeli con un’immagine che è l’epitome di questa tragica farsa.
Un esempio? Quando uno specialista prescrive un certo esame, per eseguirlo nelle strutture pubbliche serve il beneplacito del proprio Mmg. Il quale può solo limitarsi a confermare, stando zitto, che per lo Stato quella spesa è giustificata. Un passacarte.
“E’ molto bella quella vostra valigetta nera, sì. Eccola lì, sul divano…nuova di zecca, e lustra… col suo bravo stetoscopio e tutti gli aggeggi più moderni…bella completa. Non c’è da meravigliarsi se morite dalla voglia di adoperarla”. È “La valigetta del dottore”, titolo di uno dei tanti romanzi che Archibald Joseph Cronin dedicò agli apostoli della salute. Finlay Hyslop, protagonista del romanzo citato, Robert Murray, “Il medico dell’isola”, Andrew Manson, “La cittadella”, interpretato da Alberto Lupo in un memorabile sceneggiato televisivo datato 1964.
Figure romantiche. Non pretendiamo tanto. Ma togliamo qualche timbro ai nostri dottori e rimettiamogli in mano le loro mitiche borse di cuoio.
Marco Cianca