Il terreno della battaglia è ben chiaro. Circonda il colle più alto di Roma. I populisti andranno con le baionette all’assalto dei Quirinale, che sarà difeso dagli schioppi degli europeisti. Lo scontro è fissato per il 2022 ma le truppe si stanno già organizzando e i vari generali studiano tattiche e ipotizzano strategie per arrivare ben agguerriti all’appuntamento. Sapendo tutti che mai come questa volta l’elezione del capo dello Stato segnerà uno spartiacque per la nostra democrazia.
Sergio Mattarella fu designato in un clima che sancì la rottura del rapporto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi e la fine del patto del Nazareno. Toni sommessi ma polso ben fermo, ha tenuto dritta la barra durante lo tsunami politico che ha investito l’Italia dopo la sconfitta dello stesso Renzi nel referendum del dicembre 2016. La vittoria dei Cinque Stelle, il governo gialloverde, l’incredibile crescita della Lega, la crisi di agosto, la scommessa del nuovo esecutivo con il Pd alleato di Beppe Grillo, la nascita di Italia Viva. Che si vuole di più in un così breve lasso di tempo?
A tutto questo Mattarella ha fatto fronte con sorridente tenacia, da vero galantuomo, qual è. Ha incarnato il significato della buona e necessaria politica in tempi di trionfante anti-politica. Non va dimenticato che Luigi Di Maio ne chiedeva l’impeachment con isterica demagogia. La lunga transizione cominciata da Tangentopoli e dalla morte dei grandi partiti non è ancora finita. Prima dell’attuale inquilino di quella che fu la sede del Re, Cossiga, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, l’unico a ottenere un secondo mandato, hanno interpretato il proprio ruolo, spinti dall’incalzare degli avvenimenti, con un discusso ma forse inevitabile protagonismo, peraltro inaugurato, in altri tempi, da Gronchi e Pertini.
E ora? Alla scadenza mancano 27 mesi ma gli squilli di tromba già risuonano. Le strade sono due. O lasciare la scelta all’attuale parlamento, di fatto delegittimato dal taglio di deputati e senatori e dallo scollamento con la realtà politica del Paese che in maggioranza, almeno secondo i sondaggi, propende per il centrodestra, o indire nuove elezioni affidando ai futuri equilibri la designazione del custode e garante della Costituzione. Nel primo caso si amplierebbe la frattura tra Piazza e Palazzo ma si eviterebbe il rischio di una scelta affidata all’avventurismo di Matteo Salvini, nel secondo si entrerebbe in una terra sconosciuta con esiti imprevedibili.
Di mezzo c’è la sopravvivenza del Conte 2, tenuto in ostaggio da Renzi, che pretende di avere, come ha scritto Stefano Folli, “la regia della legislatura, compresa l’elezione del capo dello Stato”. Che fare? Non è in gioco la governabilità ma il nucleo stesso delle nostre Istituzioni. Giorgia Meloni ha lanciato il referendum per l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Tornano, irrisolti, tutti i contrasti sui poteri e le prerogative di colui che, durante i lavori della Costituente, Vittorio Emanuele Orlando temeva fosse “una figura pallida e senza spessore” mentre Meuccio Ruini la dipingeva come “il gran consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il capo spirituale”. Ma come si fa a parlare di tali questioni in un Paese sommerso dagli slogan di un’eterna campagna elettorale?
Consoliamoci, però. La Perfida Albione, con quel buontempone di Boris Johnson, sta messa peggio di noi.
Marco Cianca