Lo hanno chiamato Krjios. Il nome di un Titano, appreso guardando un vecchio film. I suoi genitori pensavano di infondergli così la forza per affrontare il destino. È nato a Durazzo. A due anni, lui e la mamma hanno raggiunto il padre, arrivato in Italia con le prime ondate dall’Albania. Era di marzo, 1991, sei lustri fa. Il giorno 7, a largo di Brindisi, apparvero due navi, la Tirana e la Lirija, seguite da natanti di ogni foggia. Sbarcarono trentamila disperati. Seminudi, famelici, assetati. “Italia, Italia”, gridavano. Per soccorrerli, si svolse una gara di solidarietà. Ma era solo l’anticipo di un’invasione. Che proseguì nei mesi successivi. L’otto agosto attraccò a Bari la Vlora, assalita e dirottata da ventimila dannati. Sembrava l’imbarcazione di Caronte. Vennero rinchiusi nello stadio, parecchi furono riportati indietro, altri scapparono.
Non c’era ancora la Bossi-Fini, approvata nel 2002, e questo consentì di governare l’esodo di massa concedendo permessi provvisori poi tramutati in stabile soggiorno e alla fine in cittadinanza. Nel ricordare l’accaduto, un recente e dettagliato articolo dell’Huffington Post riporta le parole del demografo Massimo Livi Bacci: il nostro Paese, terra di emigrati, capì all’improvviso cosa fosse l’immigrazione di massa.
Krjios incarna quelle vicende. Il papà era stato destinato, in base ai flussi allora possibili e ben guidati, ad un paesino dell’Umbria, trovando un impiego come camionista. Qui è poi riuscito a trasferire la moglie e il figlioletto. E sempre qui la famiglia si è arricchita con una nuova nascita. Ora sono tutti italiani. Il fratello si guadagna la vita in un negozio di barbiere. Lui ha preso il diploma di perito commerciale ma l’unico lavoro prospettatogli era in una ditta di trasporti, cinque euro all’ora. Una paga miserabile, un trattamento da schiavi.
E così ha scelto di andare in cerca di fortuna. Avendo fatto il volontario in una Misericordia della zona, possiede il suo bel certificato di doppia vaccinazione. Con una Panda acquistata a rate, si è diretto verso le regioni del Nord. Spesso dormendo in macchina. Gira e rigira, lo hanno assunto in un ristorante. Serve ai tavoli ed il proprietario, soddisfatto per questo allegro e gentile cameriere, lo ha aiutato a trovare un dignitoso alloggio. Così sbarca il lunario. Poi si vedrà. A chi gli chiede dove sente le sue radici, risponde di essere cittadino del mondo.
Poi leggi il Manifesto dei sovranisti, quello firmato da Salvini, Meloni, Orban, Kaczynski e altri inguaribili nostalgici dei confini. Dio, Patria, Famiglia. Il nazionalismo bussa di nuovo, impaziente, alla porta della storia. Si tratta, spiega Marine Le Pen, di contrastare la strada federalista che allontana inesorabilmente l’Unione Europea “dai popoli che sono il cuore pulsante della nostra civiltà” e di “rifiutare l’ideologia burocratica e tecnocratica di Bruxelles che impone i suoi standard in tutti gli aspetti della vita quotidiana”. I patrioti dicono no ad “una pericolosa ingegneria sociale” e a un “iperattivismo moralista” (tradotto: meglio la repressione degli omosessuali in Ungheria che la legge Zan in Italia).
Il linguaggio non è becero ma sotto sotto viene rispolverato e solleticato un armamentario ideologico che rimanda ai tenebrosi precordi della Seconda guerra mondiale. Foschi legami di sangue, millantate tradizioni, bellicismo. “Tornare potenza”, rivendica esplicitamente la copertina di un periodico della Nuova Destra, “Mai più schiavi”, il titolo esortativo di una delle pagine interne. Vengono recensiti libri sulla stirpe di Enea, sulle origini perdute, sulla Roma imperiale. Tutto in chiave guerriera e maschilista: “Distruggere il femminismo è indispensabile. Partendo da Nietzsche”.
Potremmo anche invadere di nuovo l’Albania. Coraggio, Krjios, piccolo titano che sfidi i fulmini di Zeus il Dominatore.
Marco Cianca