L’occupazione femminile cresce notevolmente negli ultimi dieci anni, si passa dal 43% del ’96 al 51% del 2006, ma il tasso di attività lavorativa delle donne rimane il più basso d’Europa. Si tratta di una crescita notevole (nel 2006 rappresenta il 40% dell’occupazione totale), ma fondamentalmente instabile: il lavoro dipendente a carattere temporaneo delle donne è aumentato del 62% tra il ’93 e il 2006.
Questi i dati principali emersi dal terzo rapporto Ires-Nidil Cgil “Donne e lavoro atipico: un incontro molto contraddittorio”, presentato oggi a Roma dalla direttrice dell’Ires, Giovanna Altieri.
La ricerca sottolinea come la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro sia dovuta soprattutto al part-time. Questo tipo di impiego, definito dalla stessa Altieri come “la chiave di volta” dello studio, ha registrato l’incremento maggiore: più di una donna su quattro svolge un lavoro a tempo parziale, pari al 50% della nuova occupazione. Il part-time italiano era uno dei migliori d’Europa: “Si trattava di un part-time anomalo – spiega Altieri – fatto di più ore. Oggi invece le ore sono diminuite e con questa tipologia di impiego si rischia di riprodurre una segregazione di genere, legata soprattutto a problemi di carriera e di possibilità di avere una pensione sufficiente”.
Dal rapporto si evince che né il part-time, né i contratti di collaborazione risultano essere conciliativi per le donne: il tempo parziale è una scelta consapevole solo per una minoranza di lavoratrici instabili (36%), la maggior parte delle donne che hanno contratti di collaborazione non sono madri e quelle che lo sono hanno meno istruzione e più di un figlio. In generale, le donne svolgono impieghi marginali, con contratti di più breve durata rispetto agli uomini. Gli impegni orari limitati, inoltre, risultano per lo più imposti e ci sono meno opportunità di transizione verso il tempo indeterminato. Anche per questo le donne, sottolinea il direttore dell’Ires, “sono esposte all’intrappolamento o al rischio dell’uscita dal mercato del lavoro” (più del 7% delle lavoratrici instabili occupate lascia l’anno successivo il mercato del lavoro).
Le donne risultano più precarie in tutte le classi di età: tra le più giovani più del 50% è instabile, nelle fasce più adulte lo è più del 15%, al Sud si arriva a +25%. Resta forte il divario tra il Centro-Nord che ha quasi raggiunto l’obiettivo di Lisbona (tasso di attività femminile 60%), e il Mezzogiorno, dove il ritardo e le condizioni sociali peggiorano sensibilmente.
Il lavoro sta diventando una nuova discriminazione tra i sessi e su questo Altieri pone l’accento, sottolineando che le differenze di genere nelle opportunità di guadagno rafforzano la tradizionale divisione del lavoro della famiglia. Se nel ‘900 il lavoro aveva rappresentato una costante emancipativa che nel suo lungo percorso ha portato alla caduta delle grandi barriere della discriminazione, i dati del rapporto sembrano riproporre “il dilemma antistorico tra lavoro e maternità”. Così lo definisce Filomena Trizio, segretario generale Nidil Cgil, aggiungendo che, nei casi più drammatici, a questo se ne aggiunge un altro: è utile mantenere una postazione lavorativa in presenza di famiglia? Si tratta, prosegue, di una domanda “decisamente più allarmante perché si rischia un arretramento culturale, specie nel Sud, dove spesso si assiste al passaggio silente e rassegnato dal mercato del lavoro regolare al sommerso”.
La sindacalista sottolinea poi la necessità di rafforzare la lotta alla precarietà contrastando l’irregolarità in tutte le sue forme e prendendo coscienza del fatto che questa lotta coincide con la questione dello sviluppo: “C’è una specificità femminile, soprattutto al Sud – conclude Trizio – e si devono fare i conti con una questione di genere che è, evidentemente, ancora aperta”.
A queste proposte si aggiunge quella di Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil, che commenta i dati della ricerca. Secondo il sindacalista, è possibile fare subito qualcosa di concreto: dare corso alle deleghe discusse e concordate da Governo e sindacati che fanno parte del protocollo sul Welfare approvato dalla maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici del Paese. In particolare, conclude Fammoni, riordino degli incentivi, riordino dei servizi per l’impiego, una nuova conformazione dell’apprendistato.
L’occupazione femminile, dunque, non può più essere trattata come una questione relativa alla parità dei sessi, ma come una priorità da mettere al centro dello sviluppo e della politica economica del Paese.
19/03/2008
Giulia Laruffa