L’automazione dei processi produttivi con la trasformazione dei mezzi di produzione da “soggetti inanimati” a sistemi intelligenti capaci di autoregolazione a feedback, ha profondamente modificato l’organizzazione del lavoro e il rapporto lavoratore- macchina.
Non per nulla Rifkin parlava già dagli anni ’80 di fine del lavoro per indicare il graduale e irreversibile processo di spoliazione di mano d’opera determinata , dal manifatturiero al settore metalmeccanico, dalle nuove tecnologie produttive.
Tra i pochi settori che tale destino non hanno subito c’è da annoverare il comparto sanità ( forse in buona compagnia con l’istruzione scolastica) che ha mantenuto la sua caratteristica originaria di attività profondamente labour –intense. Ed infatti nel lavoro sanitario i processi di automazione hanno interessato quasi esclusivamente la diagnostica strumentale e di laboratorio ( dove in una singola struttura è ormai possibile “lavorare” in modo automatico migliaia di campioni al giorno) mentre nelle attività cliniche nessuna tecnologia ha potuto sostituire la risorsa umana
A ulteriore dimostrazione, gli effetti prodotti dai tentativi messi in atto dalle regioni di agire sul contenimento dei costi attraverso la riduzione degli organici. Chi si aspettava razionalizzazione del servizio e miglioramento del conto economico si è in verità ritrovato riduzione dei livelli di qualità, aumento dei tempi di attesa, sovraffollamento dei PS e degli ospedali e incremento paradosso dei costi generati dalla medicina difensiva.
Ed infatti la risposta alla restrizione degli organici e all’aumento del carico di lavoro specie in condizioni di incertezza ( di cui l’emblema è l’attività svolta in area critica), è stata l’adozione da parte dei medici di misure di auto-tutela (richiesta eccessiva di indagini diagnostiche e di laboratorio per non incorrere in eventuali omissioni penalmente perseguibili) che nulla hanno a che fare con l’appropriatezza prescrittiva e che si traducono in crescente spreco di risorse.
Se dunque il lavoro sanitario di medici e altri operatori non può essere ricondotto a semplice voce di spesa, il problema non può ovviamente limitarsi al rispetto da parte della struttura burocratica- gestionale delle piante organiche e dei carichi di lavoro. Anche questo atteggiamento, sicuramente più attento alle esigenze dei professionisti, non si tradurrebbe ipso facto in miglioramento del servizio reso valutato dal punto degli esiti di salute ottenuti e della corretta allocazione delle risorse.
Serve infatti una visione prospettica alternativa in cui i principi tanto decantati ma mai realizzati delle reti cliniche, del lavoro in team dei professionisti e dell’appropriatezza prescrittiva (sia di tipo diagnostico che terapeutico) diventino il cardine dell’organizzazione del lavoro sanitario. Una prospettiva facile a dirsi ma difficile da realizzarsi e non tanto per gli aspetti “tecnici” necessari alla sua implementazione quanto piuttosto per le “forze” che si muovono all’interno del contesto sanitario e che si oppongono al cambiamento.
Il campo istituzionale sanitario
Il contesto sanitario, analizzato con un approccio di tipo sociologico, non è dissimile dagli altri campi di natura istituzionale. Esso è un campo ben riconoscibile della vita istituzionale in cui attori istituzionali diversi ( lo stato , le regioni , i professionisti sanitari e i loro organi di rappresentanza, i cittadini-pazienti, il complesso sanitario privato) cercano di massimizzare le proprie utilità adottando complesse strategie tese ad assicurarsi un ruolo di stakeholders nella divisone sociale del lavoro.
Rientrano in tali strategie la messa in atto di “patti di sindacato” tra i diversi attori, anche essi cangianti a seconda dello specifico contesto economico-istituzionale e il ricorso a pratiche di manipolazione del consenso relativamente ai bisogni di salute e alle modalità di soddisfarli. Le campagne sugli screening di massa e sui cosiddetti controlli periodici delle funzionalità dei diversi organi, di cui nessuno è mai riuscito a dimostrare le ben che minima utilità, è forse l’aspetto più evidente di tale complesso di relazioni che legano tra loro erogatori privati, assicurazioni e professionisti. Esistono tuttavia sistemi ben più sofisticati per dilatare le prospettive del mercato sanitario: l’invenzione di malattie inesistenti; la messa a punto di sistemi diagnostici precoci o predittivi per malattie allo stato attuale incurabili che portano a quella che viene definita “sovradiagnosi” ; il progressivo abbassamento del valore di normalità di alcuni parametri ematici ( ad es la glicemia e la colesterolemia) oltre i quali iniziare una terapia farmacologia. Il tutto ovviamente dicendo poco e facendo ancora meno contro le cause efficienti all’origine di tali “malattie” ( l’eccesso di alimentazione, il tabagismo, la vita sedentaria, l’inquinamento, il lavoro sporco, la deprivazione sociale etc). Si tratta in questo ultimo caso di un vero e proprio misconoscimento della realtà, portato a compimento spesso con l’indifferenza e talvolta la complicità delle istanze politiche e delle società scientifiche e finalizzato a obiettivi ben precisi: medicalizzare l’intera esistenza dell’individuo e trasformare, ogni individuo sano in un uomo “ammalato” fin dai primi giorni di vita. Una strategia che è la negazione dei veri determinanti di salute.
I determinanti di salute
Su un numero recente della prestigiosa rivista Health Affaire (vol.21/2013) J.Michael McGinnis e colleghi riprendono il tema dei determinanti di salute e ne definiscono nel modo seguente il peso percentuale che ciascuno di essi può avere nell’indurre morti precoci della popolazione americana:
1. predisposizione genetica: 30%
2. contesto sociale : 15%
3. stili di vita: 40%
4. inadeguatezza delle cure: 10%
Dalla loro valutazione, non difformemente da quanto sostenuto dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità (OMS) , ai fini della salute umana il ruolo esercitato dal sistema di cure medico-sanitarie appare estremamente modesto rispetto ai fattori di predisposizione genetica e a quelli di contesto; ed infatti gli stessi autori calcolano che sui trenta anni di aspettativa di vita guadagnati dagli americani nel corso del ventesimo secolo solo il 5% può essere imputato al miglioramento delle cure mediche”.
Il dato è particolarmente significativo se si considera che negli USA la sanità assorbe il 15% del PIL e che della spesa totale solo il 5% è impiegata nel settore della prevenzione ( una percentuale comunque superiore a quella impiegata nel nostro SSN); una irrazionale distribuzione delle risorse dunque se il 40% delle morti è in funzione dei comportamenti negli stili di vita e del contesto sociale nei confronti dei quali nulla possono gli interventi di tipo curativo su cui ci si ostina a concentrare il massimo della spesa.
Il fenomeno descritto da Mc Ginnis riguarda l’insieme dei sistemi sanitari e anche in Italia la situazione presenta delle significative analogie anche se la spesa sanitaria è significativamente più bassa non solo degli USA ma anche di Francia e Germania ( – 1,5% di PIL) e se negli ultimi tre anni, come ha documentato la Corte dei Conti nella sua ultima “Relazione sulla gestione finanziaria per l’esercizio 2013 degli enti territoriali’, ha presentato un calo di 3 miliardi di euro con un trasferimento altrettanto netto dei costi a diretto carico dei cittadini.
Il feticismo delle prestazioni sanitarie
La crisi che incombe sul nostro SSN non è tanto di natura finanziaria, quanto di natura culturale. Questo non vuol dire negare il peso che ha l’aspetto economico-finanziario nella condizione di recessione che attraversa il paese e che non trova ancora soluzione. La carenza di risorse e il progressivo de-finanziamento del SSN di cui abbiamo parlato ha delle conseguenze sulla effettiva esigibilità dei Livelli essenziali delle prestazioni ( LEA) e tali pericoli sono stati severamente richiamati dalla Corte dei Conti nella relazione prima ricordata. Esiste però un problema ancora maggiore di natura culturale; ed è quello che ruota intorno al principale criterio valutativo di performance adottato (tanto a livello macro di regione che a livello micro di singolo professionista) e che utilizza come parametro unico il valore numerico di prestazioni effettuate ( ricoveri, visite, analisi, accertamenti diagnostico-strumentali etc) indipendentemente da ogni riferimento alla loro utilità, appropriatezza e agli esiti di salute ottenuti. Totalmente assente o quasi dal dibattito è il problema dell’abuso di prestazioni , e , ancora peggio dei rischi per la salute derivante da alcuni accertamenti come quelli radiologici ( TAC, RX di diverso genere) eseguiti spesso su autoprescrizione. Esiste in sanità una specie di “feticismo delle prestazioni sanitarie” che attraverso la mitizzazione del loro potere di previsione e controllo degli stati morbosi, ne nasconde la vera natura di “prodotto” socialmente mediato. E così attraverso l’occultamento delle forze di mercato che stanno dietro la realizzazione/escuzione di tali prestazioni , vengono celati gli interessi economici che esse sottendono. In sanità dunque il criterio “di più è meglio” non solo è privo di efficacia in termini di salute guadagnata ma può essere all’origine di vere e proprie malattie “iatrogene” coma la sovradiagnosi o l’autoosservazione ansiosa che prosciuga le tasche degli utenti e spreca risorse pubbliche
Ripensare il modello organizzativo : promozione della salute e slow medicine
In sanità i modelli organizzativi, al dilà delle differenze esistenti tra le varie regioni, sono ancorati ad una impostazione tradizionale in cui gli interventi di prevenzione e promozione della salute sono residuali rispetto a quelli erogati dai servizi di diagnosi e cura. Nonostante le numerose evidenze scientifiche sui reali determinanti di salute ( i già citati ambiente di vita e di lavoro, alimentazione, stili di vita) poco o nulla viene fatto per impedire che le malattie si sviluppino o che una volta manifestate non vadano incontro a complicazioni evitabili. Il movimento delle “città sane” si è esaurito e altrettanto i progetti di guadagnare salute che erano stati uno dei cavalli di battaglia dell’ex ministro Turco. Di fatto a prevalere è il modello bio-medico di medicina tutto orientato alla riparazione ex-post, grazie anche al potere economico del complesso farmaceutico-sanitario industriale i cui assets sono farmaci e servizi diagnostici vari la cui condizione di utilizzabilità è proprio la presenza di soggetti malati . E per comprendere l’entità del fenomeno basta pensare alla stratosferica spesa raggiunta per i nuovi farmaci biologici in campo oncologico in cui una confezione di 30 compresse può costare anche 6000 (sic!) euro. Esiste poi un secondo problema e che riguarda, nell’ambito dei percorsi di cura il consumismo sanitario. In questo caso è il livello regolatorio regionale a portarne la responsabilità maggiore. Quasi sempre infatti la strategia di implementazione dei servizi è di tipo top down e limitata alla definizione delle strutture operative e delle relative dotazioni organiche di aziende sanitarie ed ospedali , compatibilmente con i numerosi blocchi legislativi esistenti. Del tutto assenti o quasi sono protocolli diagnostico-terapeutici su cosa sia scientificamente utile fare per le diverse tipologie di pazienti e su quali siano le priorità assistenziali. Protocolli che una volta elaborati (da personale competente e multidisciplinare ) dovrebbero essere implementati a livello locale in percorsi assistenziali con il diretto contributo delle equipes che quelle prestazioni dovranno erogare. In mancanza di questi e di criteri di valutazione orientati al rispetto di detti protocolli, per i professionisti l’unica chance sarà di aumentare i volumi di attività. Un obiettivo facilmente realizzabile essendo il mercato sanitario autopoietico ma che va a tutto scapito della appropriatezza . Più esami saranno richiesti, più prestazioni saranno erogate e più i professionisti potranno dimostrare la loro produttività. E conseguentemente più risorse saranno impiegate, ma il vantaggio per gli utenti sarà praticamente nullo. Contro questo stato di cose la parte più cosciente della categoria ha iniziato ora a ribellarsi dando luogo alla nascita del movimento di “slow medicine” . Un movimento in cui medici , professionisti sanitari , epidemiologici ed economisti vogliono ridefinire le regole del gioco ponendo al primo posto le prove di efficacia e rifiutandosi di eseguire procedure prive di benefici clinicamente dimostrati.
Anche per Slow medicine infatti “Il sovra utilizzo di esami diagnostici e trattamenti si dimostra un fenomeno sempre più diffuso e importante: da tempo è stato evidenziato che molti esami e molti trattamenti farmacologici e chirurgici largamente diffusi nella pratica medica non apportano benefici per i pazienti, anzi rischiano di essere dannosi. “
Perseguire l’appropriatezza delle prestazioni erogate
Rimangono dunque fondamentali i temi dell’appropriatezza sia di tipo prescrittivo che di tipo organizzativo. Lo spazio non ci consente di affrontare questo altro aspetto cruciale; mi preme tuttavia sottolineare almeno un concetto. L’appropriatezza organizzativa è realizzabile solo in presenza di un sistema reticolare di strutture , ciascuna delle quali sarà la più indicata dal punto di vista assistenziale per erogare quella specifica prestazione ( il territorio piuttosto che l’ospedale; il DH piuttosto che il reparto di degenza etc ); un sistema reticolare tuttavia deve valere anche per i professionisti che devono poter comunicare tra loro e scambiarsi reciproche consulenze in tempo reale. Anche questo è oggi possibile e alcune sperimentazione intraprese nel Nord Europa hanno dimostrato come attraverso il counselling interprofessionale ( specie tra medici di famiglia e specialisti) realizzabile semplicemente attraverso messaggi via e-mail si possono evitare esami inutili e prescrivere terapie appropriate, abbattendo così costi e tempi di attesa. Un modo di procedere botton-up che valorizza le risorse professionali e crea valore aggiunto attraverso la creazione anche virtuale di reti di professionisti che mettono al primo posto non più la quantità delle prestazioni ma la effettiva capacità di creare salute. Un modello che potrebbe fornire risultati straordinari in termini di salute guadagnata e di corretta allocazione delle risorse ma che deve vincere le resistenze dei tanti che considerano la sanità un mercato mercificato come gli altri.
Roberto Polillo