Non è facile ragionare su Bruno Trentin scrollandosi di dosso la partigianeria di chi ha lavorato nella organizzazione sindacale anche ai suoi tempi. Eppure ci provo.
Io e Bruno Trentin non ci siamo mai filati molto; talvolta siamo stati in contrasto. Lo ho rispettato, mi sembra che lui abbia rispettato me.
Quando divenne Segretario generale della Cgil nella consultazione mi pronunciai per un’altra soluzione. Il giorno della sua elezione mi piazzai in fondo alla sala con l’intenzione di non partecipare al voto, ma di farlo “in sordina”. Poi ho cambiato idea a fronte delle sue dichiarazioni programmatiche e votato a favore.
Nella vita di partito io stavo con i miglioristi. Questo ovviamente si rifletteva nel lavoro sindacale.
I risvolti più controversi del suo operare nascevano dalla opinione che lui si era formato sui dirigenti della Cgil ai vari livelli. Una opinione pessima, se ne salvavano pochi ai quali lui riteneva di potersi affidare. Di noi riformisti pensava che fossimo disposti a qualsiasi compromesso e che i risultati positivi del nostro operare fossero in contraddizione patente con la vocazione nostra. Mostrava di amare tutti quelli che sinistreggiavano; al tempo stesso ne considerava l’inconsistenza ben sapendo (lui in primo luogo) che differenza ci fosse tra Trentin e i trentiniani.
Questo atteggiamento di Bruno è di evidenza clamorosa nei mesi che precedono il luglio 1992 fino alla notte della sua firma con dimissioni.
Non è possibile che Trentin non avesse compreso l’aria che tirava, quali fossero le condizioni reali del paese e della finanza pubblica; quindi i rischi di rimanere incastrati nel modo che poi si è verificato.
Eppure lui non fece nulla per preparare il gruppo dirigente a un negoziato difficile nel quale bisognava saper fronteggiare anche sgambetti e ricatti.
Nelle riunioni del Direttivo Cgil le poche voci dei riformisti tentavano di mettere la discussione con i piedi per terra e attrezzarsi per un compromesso, tuttavia prevaleva una tendenza che presa in parola avrebbe portato a rivendicare miglioramenti della scala mobile. Lui lasciava correre e perfino i socialisti non partecipavano un gran che.
Trentin da una parte non voleva assecondare le tesi dei riformisti, al tempo stesso non riconosceva nei suoi amici capacità di comprensione e condivisione di una linea plausibile e vedeva un gruppo dirigente complessivamente non all’altezza del compito.
Questo porta alla firma con dimissioni. Certo la difformità tra il mandato e quanto firmato era evidente, ma cosa era fuori squadra rispetto alla situazione, l’accordo o il mandato? Non sarà mica stata la prima volta che i risultati di un negoziato erano difformi dalle nostre pretese. Gli è che lui non aveva fatto nulla per contrastare la deriva spontanea dell’organizzazione.
La mattina dopo sono andato a trovarlo al quarto piano di Corso d’Italia perché non sopportavo la solitudine nera in cui si era venuto a trovare e per dirgli che aveva fatto bene a firmare, ma che avrebbe dovuto mettere il Direttivo Cgil di fronte alle sue responsabilità. Mi ascoltò senza parlare tanto. L’impressione mia è che la visita gli avesse fatto piacere.
Certo dal punto di vista tattico della sua relazione con il Comitato direttivo la condotta finale è stata geniale. Firma con dimissioni, sgravati tutti della responsabilità della decisione, possibilità di dirsi contrari che tanto la firma c’era, ritorno a settembre con trionfo.
Ma cosa c’entra tutto questo con il compito che ha chi comanda di formare gruppi dirigenti nella attitudine alla assunzione delle responsabilità? Nulla. E infatti questo seguita ad essere un problema della Cgil che dopo Trentin si è perfino aggravato.
Aldo Amoretti