Io esco da casa. No, non è un invito alla disobbedienza civile, le regole vanno rispettate. Semmai l’augurio che questa frase possa diventare presto il felice slogan di fine emergenza. E una sollecitazione a non rinserrarsi nel proprio sé, a non guardarsi torvi l’ombelico, a non ammazzare il tempo che invece deve fluire creativo, a non fare finta che tutto andrà bene, a non alternare cupo pessimismo a ebete ottimismo, obnubilati dal telefonino, ridendo di demenziali video o incupendosi dietro a cervellotiche ricostruzioni complottiste sull’origine del virus. Il mondo era guasto prima, come scriveva Tony Judt, e sta peggiorando adesso. E allora, con l’immaginazione, con la fantasia, con la forza del pensiero, abbandoniamo la costrizione domestica e leviamo alto il canto delle idee.
State a casa, ci ripetono con tono paternalistico, tanto ci pensiamo noi. Ma voi chi? Pasqua con le Chiese chiuse, il 25 aprile senza festa per la Liberazione, il 1° maggio niente cortei sindacali e niente concerti. I divieti di assembramento potrebbero durare a lungo, incrinando quel diritto a riunirsi e a dibattere che è alla base della democrazia. Inevitabile, certo. Il rischio di nuovi contagi induce alla massima prudenza, chissà quanto ci vorrà prima di un ritorno alla normalità.
Ma per sottrarci alla dittatura dei virologi, a questa sospensione per via sanitaria della libertà, minacciati di continui controlli polizieschi e inseguiti da tamponi non si capisce bene se a fini terapeutici o punitivi, non dimentichiamo il senso della vita. Che non vuol dire solo non ammalarsi, nell’illusione di una impossibile immortalità, ma decidere del proprio destino. L’economia sta andando a rotoli, si discute e si litiga su come farla ripartire, sugli incentivi, sul debito pubblico, sul ruolo delle banche, sulle responsabilità dell’Unione Europea.
Tutto bene. Ma ci ricordiamo come stavano le cose prima che questo invisibile patogeno scatenasse il caos? A gennaio, mentre la pandemia faceva capolino a Wuhan, l’Oxfam, un’organizzazione non governativa britannica, denunciava l’enormità delle diseguaglianze: i 2.153 individui più facoltosi possiedono patrimoni pari a tutto ciò che hanno 4,6 miliardi di abitanti del pianeta. “Le cinquanta persone più ricche del mondo, da sole potrebbero finanziare l’assistenza medica e l’educazione di ogni bambino povero. Potrebbero salvare milioni di vite ogni anno”, fu l’accorato appello di papa Francesco. Parole per lo più perse nel vuoto dell’indifferenza. La teoria neocapitalista del gocciolamento, delle briciole che dall’alto cadono verso il basso facendo girare il denaro, continua ad essere più forte di ogni ipotesi redistributiva. È vero che la ricchezza alimenta la ricchezza, ma questo non può valere solo per chi la detiene in toto.
Ora, di fronte all’emergenza, sembriamo concordi nel riconoscere l’indispensabilità di un servizio sanitario pubblico, efficiente e sempre pronto. Cerchiamo di non dimenticarcelo. E il resto? Gli sfruttati, i lavoratori in nero, i disoccupati, i giovani senza prospettive, i non tutelati, i disperati, i senza casa, gli indebitati? Erano tanti prima, quanti saranno adesso? E i commercianti, gli artigiani, i negozianti che hanno dovuto chiudere i propri esercizi e che ora non hanno nemmeno i soldi per pagare l’affitto? Serve l’immissione di liquidità, certo, anche per evitare che finiscano nelle mani dell’usura: la criminalità si muove più veloce dello Stato. Si annunciano misure straordinarie per far ripartire la produzione e sostenere i consumi. Ottimo. Ma riprendiamo a produrre e consumare come se nulla fosse accaduto? E gli immigrati, quelli confinati nell’orrore dell’isola di Lesbo li abbandoniamo di nuovo a sé stessi? I bambini, le donne, gli uomini, che muoiono di fame, di sete, di malattie (non c’è solo il coronavirus) hanno meno diritto di noi ad essere aiutati e protetti?
Retorica buonista? Forse. Ma solo una società più giusta può sopravvivere. Voliamo via da casa e sulle ali dell’utopia cominciamo a pensare che le cose possono essere cambiate. Una rivoluzione dei valori, delle priorità, dell’esistenza stessa.
Marco Cianca