Prima di avventurarci sul tema dell’inflazione è utile ripassare alcuni concetti di base del rapporto tra inflazione, produttività e salari. Così come tra Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro e contrattazione di secondo livello.
Primo concetto: l’inflazione è un male per l’economia solo quando è troppo bassa o troppo alta, per periodi medio lunghi. Con un dato storico in più: un’inflazione troppo bassa non è mai stata un bene per l’economia del nostro Paese. Ovviamente anche un’inflazione fuori controllo alla lunga non è sostenibile, ma la bassa inflazione è comunque – soprattutto in economie interconnesse come quella Europea – il pericolo peggiore, perché deprime i consumi e gli investimenti in economia reale (al massimo sostiene quelli puramente finanziari, con gli eccessi che abbiamo visto tutti).
Tanto è vero che già da qualche anno, ben prima della Pandemia, i principali istituti economici e le grandi banche centrali (tra tutti la BCE e la Fed) puntavano come obiettivo delle proprie politiche monetarie e indicavano come target ai vari paesi, un tasso di inflazione almeno del 3%.
Ovviamente intesa principalmente come inflazione legata tanto all’aumento dei consumi che degli investimenti, in particolare quelli a medio periodo con evidenti effetti moltiplicativi (infrastrutture, energia, welfare, ecc.). Cioè un’inflazione legata a maggiore circolazione di moneta nell’economia reale.
Aspetto diverso è una inflazione superiore al 5% soprattutto se “importata” e per periodi medio-lunghi in quanto, anche se in presenza di un sistema di adeguamenti salariali o fiscali efficiente, alla lunga non reggerebbe per la nota spirale “inflazione-atteso aumento inflazione-aumento preventivo dei prezzi”. Essendo noto che l’inflazione “prima” si scarica sui prezzi e poi, nel tempo (più o meno breve) viene recuperata (totalmente o in parte) da aumenti della capacità di spesa delle famiglie.
Una cosa è comunque certa: troppa inflazione nel medio periodo (le statistiche internazionali parlano di 4-5 anni) è pericolosa, per i periodi più brevi, quando è troppo poco recuperata, perché produce solo povertà e contenimento di investimenti nel medio termine.
In sintesi, con un’inflazione tra il 2 e 3% medio, anche nei prossimi anni, nessuno si dovrebbe preoccupare. A meno che non si voglia strumentalizzare una cosa che è pacifica per tutti gli economisti, al fine di ridurre ulteriormente i salari di fatto a favore di (ulteriori) maggiori profitti. Allora l’inflazione, come le congiunzioni astrali, è solo una “scusa” per riproporre politiche di austerità. Quelle politiche che, come la Pandemia ha dimostrato accelerando diversi processi, ci avevano condannato a bassa crescita e aumento delle disuguaglianze (e quindi aumento anche dell’inefficienza).
Secondo concetto: la produttività è la capacità, per un determinato fattore (in questo caso il fattore lavoro), di produrre più valore aggiunto (e quindi teoricamente più ricavi, rispetto ai costi) per unità di riferimento (in questo caso il tempo, l’ora di lavoro per esempio).
La produttività è quindi il risultato di più fattori sia interni che esterni (o di sistema).
A livello aziendale è legata o a maggior concentrazione di investimenti in innovazione di processo o prodotto (per cui in un’ora si produce un bene o servizio di maggiore qualità che quindi “vale” di più) o a maggiori sforzi del lavoratore (che può essere uno sforzo quantitativo, cioè più ore di lavoro, così da ridurre i costi e quindi aumentare i ricavi; oppure uno sforzo qualitativo, in quanto il lavoratore divenuto più bravo o con maggiori dosi di creatività aumenta il valore di quanto produce in un’ora, ma anche in questo caso potremmo parlano effetto indiretto di investimenti in capitale se ciò è frutto o di una maggiore formazione fornita dall’impresa o di un’organizzazione del lavoro che permette momenti di creatività, autonomia, ecc.).
A livello di sistema (che può essere anche di “filiera” o di distretto, non per forza “fisicamente” prossimo; potenza del digitale e della tecnologia!) vale lo stesso principio: investimenti diffusi in capitale (dalle infrastrutture che abbattono i costi logistici, introduzione di nuovi macchinari o procedure in questa o quella parte della filiera, a monte o a valle, ecc.) o sul lavoro (formazione, riconversione, assunzione di giovani laureati, ecc.).
Il sistema contrattuale – che deve cambiare, innovarsi, puntare su maggiore partecipazione, adattarsi ai vari contesti in alto (multinazionali tascabili, ecc.) e in basso (piccole e piccolissime imprese) ecc. ma non è questo l’oggetto di questo articolo – risponde quindi a tre funzioni diverse proprio in relazione all’inflazione, alla produttività a livello aziendale, alla produttività esterna o a livello di sistema.
Ed i due livelli della contrattazione collettiva – nonostante quanto ha scritto Dario Di Vico sul Corriere Economia del 7 febbraio, e nonostante sia un decano delle relazioni industriali – hanno funzioni diverse.
Il Contratto Nazionale di Lavoro, anche per la sua funzione di regolatore delle condizioni minimi e di lotta alla concorrenza sleale (tra le altre cose), ha il compito sia di difendere il potere di acquisto dei salari dall’inflazione, indipendentemente dalla sua origine (agendo quindi sui minimi contrattuali, cioè sui soldi “cash”) sia di redistribuire la c.d. “produttività” di sistema, cioè tutti quegli elementi che aumentano la quantità/qualità della produzione di un bene e servizio, lungo la filiera o nel territorio, non direttamente legate a investimenti e scelte aziendali (non rimando qui a tutte le teorie dei “Beni relazionali”, dell’economie esterne di sistema, distrettuale e non solo, note alla ricerca scientifica in materia).
Se non lo fa: da un lato acuisce gli effetti di un’inflazione che si scarica sui prezzi ma, non conoscendo adeguamenti nella capacità di spesa delle famiglie, genera alla fine decrescita e depressione, dall’altra non incentiva ulteriori interventi sulla produttività di sistema o li confina ad una spesa (magari pubblica) e ad un aumento degli extra profitti. Questo, indipendentemente dagli indicatori scelti, è il motivo per cui oggi occorre una politica di rivendicazione salariale importante.
Il Contratto di secondo livello (aziendale o dove previsto territoriale) deve invece redistribuire la produttività, generata espressamente per interventi dentro l’ambito di impresa: deve cioè redistribuire lo sforzo che i diversi fattori (nel caso specifico il lavoro) fanno, nell’aumentare il valore. Anche per questo l’impresa stessa, se intelligente, è propensa a farli.
Sia per riconoscere l’effetto indiretto di investimenti in nuovi prodotti e processi (si premia l’adattabilità, la capacità di esaltare gli investimenti fatti in capitale) sia per riconoscere l’effetto del proprio diretto contributo da parte dei dipendenti (partecipo di più, propongo di più, lavoro in squadra meglio, lavoro di più). Con tutta una nuova “gamma” di indicatori che, rispetto a ieri, non possono più ridursi solo alla presenza (per quanto importante) o essere il risultato di un numero finale (magari il MOL) per cui altri fattori possono intervenire e che comunque sono “meno visibili” rispetto allo sforzo del lavoratore.
E’ tutto il tema di come, per esempio, nei Premi di Risultato, si codifica lo sforzo formativo, la partecipazione, il “team building”, comportamenti responsabili e sostenibili, ecc. Insomma è tutto il tema di come, cambiando il lavoro, cambiano anche i “parametri” di calcolo e valorizzazione. Secondo un mix dove vecchi e nuovi indicatori dovranno convivere.
Perché queste, per molti, banali considerazioni a mo’ di ripasso? Perché se da un lato ha ragione Di Vico, nel denunciare come l’argomento “innovazioni nelle relazioni industriali e produttività” sempre essere caduto nel dimenticatoio per molti, dall’altro sento troppe sirene annunciare, per una via o per l’altra, l’intenzione di non riconoscere la funzione di autorità salariale al Sindacato tramite la contrattazione collettiva nazionale.
Perché avverto i rumori di fondo di una prossima crociata ideologica contro i CCNL e perché oggi – ritengo – serva invece più contrattazione collettiva, a tutti i livelli, per governare una transizione tecnologica, ambientale e finanche demografica, dove o la partecipazione e il riconoscimento anche delle legittime aspettative di lavoratrici e lavoratori viva nella sua totalità o presto la “macchina” rischierà di ingolfarsi.
Il rischio è quindi quello di farci perdere l’occasione perché la ripresa segni anche una nuova stagione di relazioni industriali, innovative e a tutto tondo. Quello che serve, insomma, non solo per godere di tutte le potenzialità connesse anche al PNRR e al nuovo ciclo economico, ma anche per trasformare un apparato produttivo sotto dimensionato, poco propenso all’innovazione, ancora una volta tentato di percorrere la via bassa allo sviluppo (quello della precarietà e dei bassi salari). Dimostrando di non aver capito nulla di quello che serve, non solo per essere un Paese più giusto (categoria che forse agli imprenditori o ad una loro parte poco potrebbe interessare), ma anche più efficiente e innovativo (e questo dovrebbe interessare tutte e tutti).
Alessandro Genovesi, segretario generale Fillea Cgil