Diciamo che ci sono due notizie, una buona e una cattiva: la buona è che il lavoro in Italia cresce, la cattiva è che chi lavora è pagato male. Si può riassumere cosi il senso dei dati offerti questa settimana da Istat e Ilo: col primo che certifica come i posti di lavoro non siano mai stati cosi tanti, e la seconda che, appunto, dichiara l’Italia ultima in classifica per gli stipendi. Ma entrambi i numeri, quelli delle buste paga e quelli del lavoro, varrebbe la pena di guardarli più in profondità.
Partendo dagli stipendi: per misurarne il calo, l’Ilo prende come riferimento il 2008. Vale la pena di ricordare rapidamente il contesto dell’epoca. È infatti il 2006 l’ultimo anno del più felice periodo per l’economia dal dopoguerra. Che si interromperà pero, brutalmente, proprio nel 2008, col fallimento di Lehman Brothers, scatenando la peggior tempesta economico finanziaria dal 1929, trasformandosi negli anni successivi in crisi del debito e dell’euro e costringendo i paesi, noi soprattutto, a manovre pesantissime per recuperare stabilità nei conti pubblici. Sempre per promemoria, in ordine sparso, ricordiamo: la crisi greca, la lettera della Bce, lo spread a 500, whatever it takes di Draghi, la caduta, o cacciata, del governo Berlusconi, l’avvento di Mario Monti, la manovra lacrime e sangue cosiddetta ‘’salva Italia’’, la riforma delle pensioni e del lavoro del ministro Fornero, gli esodati. Tutto nel giro di pochi terribili anni, dal 2008 in poi.
Le varie successive sciagure ci hanno costretto a sovrascrivere i ricordi delle precedenti, ma quando ci si chiede ‘’perché i salari in Italia sono cosi bassi’’, forse tra le molte possibili risposte varrebbe la pena di includere anche questa: perché da quell’anno in poi c’è stata una lunga, lunghissima crisi economica. Perché le aziende chiudevano, perché i sindacati cercavano, in quegli anni, innanzi tutto, di difendere l’occupazione, mentre dilagava la cassa integrazione e la disoccupazione saliva a livelli record. Nel solo 2012 i posti di lavoro persi, secondo l’Istat, furono 554.000. E ancora: nel 2012 il debito pubblico italiano superava per la prima volta il tetto dei 2.000 miliardi di euro, mentre il reddito delle famiglie calava del 4% rispetto all’anno prima e le previsioni sul Pil erano di -2,4. Investimenti e crescita erano lontani ricordi. Viene da sé che non c’era proprio spazio, non poteva esserci, per aumenti salariali di alcun genere, era già tanto riuscire a salvare il lavoro.
Poi, certo, ci sono concause. I salari aumentano in due modi, attraverso il fisco e attraverso i contratti. Sul piano fiscale, nel 2014 il governo Renzi si inventò gli 80 euro (netti) in busta paga, una boccata di ossigeno pari a un discreto rinnovo contrattuale per tutti i lavoratori dipendenti. E nel 2018 le parti sociali strinsero il cosiddetto patto della Fabbrica, che stabiliva i metodi di rinnovo dei contratti, definendo un indicatore, l’Ipca, per gli aumenti. Tutto bene, o quasi, fino al 2019: perché poi, nel 2020, ci è arrivata tra capo e collo la pandemia, e la giostra infernale è ripartita. Attività economiche ferme, posti di lavoro perduti, eccetera. Nel frattempo, i contratti continuavano a rinnovarsi, con buoni risultati, e dalla pandemia siamo usciti. Ma poiché le disgrazie non vengono mai sole, ecco che ne arriva un’altra, l’inflazione: dovuta sia alla ripresa dopo lo stop della pandemia, sia, dal 2022, ai prezzi dell’energia legati alla guerra in Ucraina. I sindacati hanno continuato a rinnovane i contratti ma, pur portando a casa aumenti più che dignitosi (in media, attorno ai 220-250 euro mensili, senza contare il record di 430 euro dei bancari), è chiaro che recuperare tutto quanto perso a causa dell’inflazione era impresa impossibile. Tanto più che dopo queste vicissitudini il patto della Fabbrica era ormai obsoleto, l’Ipca inadeguato, e i meccanismi, dunque, tutti da rivedere. Ma non si è mai riusciti a mettere sindacati, imprese, e magari anche governi, allo stesso tavolo per riscrivere le regole del gioco.
E veniamo all’occupazione. L’Istat ci dice che siamo al record di persone al lavoro, oltre 24 milioni. Ma anche qui si può fare una lettura, diciamo cosi, laterale. Prendiamo un dato contenuto nel secondo Report della Cisl sul lavoro: nella parte dedicata agli Inattivi, cioè non occupati e non disoccupati, emerge che sono 12 milioni e mezzo, e la cifra è in aumento. Degli inattivi, ben 8 milioni sono donne, e tre milioni di loro spiegano l’inattività con ‘’motivi famigliari’’, contro solo 128 mila maschi che danno la stessa risposta. Del resto, le donne sono meno pagate, le donne con figli ancora meno, le donne immigrate meno pagate degli immigrati maschi, e cosi via. Nulla, insomma, le incoraggia a mettersi in gioco. Quanto ai giovani: l’aumento degli inattivi dell’ultimo anno risulta concentrato su di loro, e non solo nella fascia 15-24 anni. Infatti, nella successiva fascia di età, 25-34 anni, quando i percorsi di studio dovrebbero essere oramai terminati, il tasso di inattività sfiora il 25% ed aumenta di 2 punti percentuali nell’ultimo anno, raggiungendo quota di 1.539.000. Come mai? Tutti sfaticati? O c’è qualche altra ragione?
Lidia Baratta, che cura la rubrica Forza Lavoro su Linkiesta, ha fatto una ricerca su alcune piattaforme per le offerte lavoro e ha scoperto che tutte le aziende, di ogni settore, cercano stagisti: giornali, banche, marchi del lusso, uffici marketing, studi legali, negozi. Probabilmente per tappare i buchi in organico a costo quasi zero, se non zero. Da Lavoce.info apprendiamo che i tirocini non retribuiti, ogni anno, sarebbero poco meno di 700 mila. Quelli retribuiti, con cifre tra i 600 e i mille euro, nel 2023 sono stati 284 mila. Solo il 33% ha avuto un seguito e solo il 13% si è trasformato in assunzione a tempo indeterminato. Dunque, due fondamentali bacini di forza lavoro, i giovani e le donne, sono di fatto scoraggiati dal presentarsi sul mercato. Per le retribuzioni basse, per le difficoltà di accedere a una occupazione soddisfacente, di conciliare la vita e il lavoro, e per tutte le ragioni che sappiamo.
Per cui: struggersi perché i salari sono bassi, o per i Neet che non si capisce come passino il loro tempo, visto che non lavorano e non studiano, va benissimo per riempire i media di doglianze o accuse, ma non risolve nessuno di questi due colossali problemi. Nel 2011 lo stipendio medio in Italia era 1250 euro, quasi perfettamente sovrapponibile alla soglia di povertà indicata dall’Istat, che era 1050 euro. L’Italia nel 2011 era un paese ricco, con una ricchezza privata di oltre 8 mila miliardi, contrapposto a un debito pubblico quattro volte inferiore; ma era un paese ricco abitato da poveri. Quindici anni dopo siamo ancora lì, solo che forse non siamo nemmeno più un paese ricco.
Nunzia Penelope