Durante il convegno dell’Inail di questa mattina nel quale si è illustrato il Rapporto di metà consiliatura del Civ, è stata presentata una relazione del Professor Roberto Leombruni dell’Università di Torino: “Safe and Suitable work – infortuni e infortunati sul lavoro ai tempi della flessibilità”. Una relazione interessante e molto approfondita che mette luce tra le tante ombre in materia di sicurezza all’interno di una trasformazione ormai definitivamente flessibile dell’organizzaizone del lavoro. Scopo della ricerca è quello di informare su possibili nuove strategie, chiedendosi se ci sono nuovi rischi e se esistono modelli a cui ispirarsi per affrontarli. Il lavoro ha analizzato la normativa attuale su infortuni e infortunati guardando agli aspetti assicurativi prima e dopo l’infortunio e avvalendosi dei dati di WHIP-Salute: una banca dati sviluppata all’interno del Piano statistico nazionale grazie ad una collaborazione tra Ministero della Salute, Inps e Inail.
Attualmente, secondo lo studio dell’Università di Torino, la normativa italiana si concentra esclusivamente su un ‘antico’, se così si può dire, binomio datore di lavoro- lavoratore dipendente e presenta delle mancanze rispetto a nuove categorie: il lavoro autonomo del commercio che “è sempre sfuggito al suo pieno inquadramento tra le competenze Inail; il lavoro parasubordinato che ha ricevuto una copertura inail solo nel 2001, le partite iva ancora fuori dalla normativa.
Non possiamo più parlare infatti, quando ci riferiamo ai lavoratori non dipendenti nell’attuale trasformazione dell’organizzazione del lavoro, di un rapporto subordinato ma più precisamente di un “rapporto commerciale”. Per questo motivo ciò che “garantisce le tutele non dovrebbe essere esclusivamente il contratto di subordinazione ma la presenza di una relazione di lavoro”. A questo proposito, il prof. Lumbroni ha individuato nella sua relazione due vie possibili: una che richiama alla responsabilità sociale delle imprese, l’altra che prende ad esempio alcuni sistemi innovativi di regolazione nazionale che allargano le tutele ai non employee workers. Un caso virtuoso è quello dell’Australia che nel Work Health and Safety Act del 2011, non basa la tutela sul contratto di lavoro dipendente ma guarda al “conduttore dell’attività” piuttosto che al datore di lavoro e non si riferisce al dipendente ma a “qualunque persona in una relazione di lavoro con il conduttore dell’attività.”
Siamo di fronte, infatti, a nuovi rischi per la salute legati all’aumento della flessibilità produttiva causati soprattutto da una minore esperienza sul posto di lavoro. Come sottolinea il prof Lumbroni, la conoscenza dei rischi di infortunio si acquisisce nel tempo, con l’esperienza, “meccanismo noto e naturale” che la flessibilità riduce. Situazione che ci consegna una “nuova urgenza” che la relazione quantifica puntualmente incrociando due diversi indicatori: l’andamento del rischio di infortuni nel periodo iniziale di un nuovo lavoro e la durata del rapporto di lavoro stesso.
Confrontando i due indicatori rilevati dai dati Istat della rilevazione sulle Forze di lavoro e i dati Whip-Salute risulta che “due lavoratori su cinque tra gli under 25, e uno su cinque tra i 25-34 anni, affrontano rischi di infortunio di oltre il 60% più alti per il solo fatto che non hanno sufficiente esperienza sul nuovo rapporto di lavoro” quindi “le carriere flessibili si traducono in una situazione in cui gli individui, soprattutto a inizio carriera, cambiando frequentemente lavoro si ritrovano continuamente in una fase a più alto rischio di infortunio”.
Ma il lavoro presentato oggi all’Inail avanza anche delle proposte. Analizzando i dati si evince che, tra i lavoratori più giovani, è possibile incidere avviando percorsi all’interno delle scuole che parlino di sicurezza del lavoro al momento assenti o marginali e “un’applicazione intelligente dell’induction training, abbinato ad una patente delle competenze”. Gli infortuni riguardano però anche i lavoratori più anziani interessati da rischi ed esigenze diverse rispetto ai lavoratori più giovani. Un lavoratore maturo, quando inizia una nuova occupazione, “può beneficiare della sua esperienza pregressa” il che risulta essere positivo ma che può portare invece a “sottovalutare i rischi per la troppa fiducia legata ad aver affrontato quei rischi in lunghi anni di carriera”. L’overconfidence, così viene chiamato il comportamento del lavoratore maturo che sottovaluta i rischi, è difficilmente rilevabile perché è “un’attitudine psicologica”. Spesso, infatti, può essere confusa con il fatto che lavoratori più anziani hanno “una minore attenzione o agilità.”
La relazione continua delineandoci un quadro preoccupante per i lavoratori infortunati perché “l’eccessivo protrarsi del rientro può portare ad un progressivo distacco ed esclusione dal mercato del lavoro”. Complice dell’inattività il sistema di welfare. In Italia, gli infortunati sui luoghi di lavoro sono indotti al prepensionamento invece che alla re-inclusione nel mercato del lavoro. Per questo motivo, la relazione sottolinea che il supporto economico di cui usufruiscono i lavoratori dopo gli infortuni deve essere accompagnato da “misure attive di fornitura dei servizi e di incentivi che facilitino il reingresso e la partecipazione al lavoro”. E nonostante le sollecitazioni che arrivano dagli osservatori del mercato del lavoro europei, l’Italia è uno dei paesi che presenta numerose lacune in merito.
Il messaggio finale che manda la relazione si riferisce, quindi, ad un cambiamento di paradigma nella normativa sugli infortuni a partire dall’individuazione, all’interno del nuovo mercato del lavoro flessibile, di figure nuove e diverse che sostanziano il rapporto di lavoro. Non possono essere infatti limitate al binomio datore-dipendente perché la relazione è mutata e quindi dovrebbe cambiare anche la normativa che li riguarda, estendendone la portata. Allo stesso modo è importante distinguere quando si valutano gli infortuni e si interviene sulle conseguenze tra giovani lavoratori e quelli più maturi. Per tutti questi motivi, la relazione individua tre misure attive su cui bisogna puntare: “il coinvolgimento delle imprese con misure di reintegro professionale; le competenze del lavoratore più che le inabilità; un ruolo del pubblico nel supportare, oltre che nel sussidiare, il percorso svolto da lavoratori e imprese.”
Alessia Pontoriero