Alla mia età devi abituarti a considerare la morte in una prospettiva vicina ed aspettarti che arrivi “come un ladro nella notte”. Così quando senti suonare la campana per una persona della tua età, che hai conosciuto e che per un lungo tempo ha fatto parte del tuo lavoro e quindi della tua vita, la prima cosa che ti chiedi è come è morta. Perché è importante, nonostante la malattia e la sofferenza, vivere la vita che hai scelto fino all’ultimo, compos tui, rassicurato dagli affetti dei tuoi cari, in grado di difendere e promuovere i valori e le idee che ti sono sembrate giuste nelle diverse fasi della esistenza.
Nei giorni scorsi ci ha lasciato Raffaele Minelli, un dirigente sindacale della mia generazione, militante di quella componente socialista che non avrebbe potuto avere una patria diversa dalla Cgil. Anche nelle coorti generazionali dei sindacalisti vi sono delle cesure sulle quali non si è mai riflettuto abbastanza. Nei gruppi dirigenti comunisti vi fu un salto di generazione: basti pensare al passaggio di consegne tra Bruno Trentin e Sergio Cofferati. Bruno fu l’ultimo leader appartenente (come Sergio Garavini, Nella Marcellino, Rinaldo Scheda, lo stesso Luciano Lama e tanti altri) alla generazione che prese il posto dei “padri costituenti” che rifondarono nell’immediato dopoguerra il sindacalismo libero. Sergio proveniva dall’esperienza nata dall’autunno caldo. Tra i due (gli ultimi leader importanti della Confederazione di Corso d’Italia) c’era non solo una storia diversa, ma una distanza anagrafica ultraventennale. La formazione del gruppo dirigente socialista avvenne, invece, dopo che la scissione del Psiup aveva sottratto la gran parte dei quadri.
Vi fu così, nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso, un vero e proprio processo di ricostruzione attraverso nuovi inserimenti di giovani, che arrivarono vent’anni dopo – ovviamente chi ce la fece e ne aveva le qualità – a rappresentare, in buona misura, la generazione di mezzo e quindi a trovare spazi importanti nella direzione delle strutture confederali e di categoria. Raffaele Minelli apparteneva a quella leva. E il suo cursus honorum dà testimonianza non solo delle sue qualità politiche ed umane ma anche della capacità della Confederazione di riconoscere il valore dei suoi quadri, oltre la logica delle componenti. Certo, spesso erano necessarie discussioni, polemiche ma una soluzione veniva trovata. Perché l’unità era un valore comune.
In proposito, ricordo una frase di Rinaldo Scheda, un dirigente ingiustamente dimenticato, quando si discuteva se fosse “migliore”, per assumere un determinato incarico (nel caso di specie la responsabilità della Fiom di Roma) un quadro comunista o uno socialista: “il migliore – affermò con la solita durezza Rinaldo – è chi determina l’unità”. Raffaele è stato segretario generale della Camera del lavoro di Roma, anni dopo dello Spi, dell’Inca, prima di approdare, per sua scelta, ad incarichi di studio (nei vari centri culturali della Confederazione) e di rappresentanza (nel Cnel). Poi decise di ritirarsi in campagna con la moglie (Riccarda Bultrini) che aveva conosciuto nel lavoro sindacale e che gli è stata vicina fino al momento del Grande Sonno.
La vita appartata non lo aveva distratto dalle battaglie che conduceva sui social, sulle pagine di Facebook; sempre dalla parte giusta. Io ero stato molto legato a Raffaele (anche suo fratello Claudio era un dirigente della Cgil) e avevo avuto con lui una comunanza di interesse per le politiche sociali e la previdenza. Spesso eravamo in disaccordo, ma io gli ho sempre riconosciuto una cultura ed una competenza che ne facevano non solo un eccellente dirigente sindacale, ma uno studioso di vaglia. Poi le nostre strade presero direzioni diverse, in merito alle quali non siamo mai riusciti a confrontarci e a spiegarci.
Succede anche tra compagni che non si riesca a dirsi tutto. E sono proprio le parole che non si sono dette ad ossessionarti quando scopri che non avrai mai più l’opportunità di farlo. Buon viaggio Raffaele. E preparati. Perché da lassù ti hanno chiamato per avere un parere sulla riforma del loro sistema pensionistico, non più sostenibile dopo la crisi delle vocazioni.
Giuliano Cazzola