Sei stato il mio primo capo, ma fosse solo questo. Quante cose mi hai insegnato, a ridere per esempio, che con te si rideva come con nessuno. A scrivere. A ascoltare. A bere. A camminare. A usare il pc. Sei stato zio, amico, tata, capo, sei stato qualcuno di cui c’era tanto bisogno.
Sei stato anche un vero intellettuale, colto come pochi, con una cultura davvero di sinistra e profonda e raffinata e soprattutto etica.
Sei stato un giornalista di rara classe, in equilibrio perfetto tra la penna e il senso. E che garbo, sempre, quanta dolcezza quando dovevi correggermi qualcosa. Non mi hai mai cambiato una virgola senza prima chiamarmi e discuterne con me. Tanto che pensavo il giornalismo fosse sempre così bello e elegante e quando ho scoperto che non era così ho lasciato perdere perché mi avevi viziata.
Quante volte abbiamo discusso sul valore di un attacco o di una chiusura. Quanti piani sanitari regionali mi facevi fare per concedermi poi una recensione in cultura. Perché avevi capito che dovevo imparare le cose che non sapevo, non solo quelle che sapevo già.
Non so che ricordo scegliere come mio preferito. La prima volta che ti mandai un pezzo per Rassegna Sindacale, mandandoti il dischetto su un taxi perché non avevo una casella di posta elettronica e nemmeno la patente? Oppure quella volta che ero piccola e avevi perso gli occhiali e vagavi per la spiaggia nella direzione opposta a quella giusta?
Questa foto è l’unica che ho, e anche questa è un bel ricordo. Eri venuto al nostro scomodissimo e campagnolo matrimonio in treno. Non avevi dove dormire ma non era un problema. Hai aspettato la fine della festa, verso le 5 del mattino. Poi qualcuno ti ha dato un passaggio alla stazione per aspettare il primo treno per Roma che chissà a che ora era. Ma che problema c’era? Ecco, eri così. Mi volevi tanto bene e io ne ho voluto tanto a te.
Avrei voluto restarti più vicino negli anni. Ringraziarti meglio per tutto quello che hai fatto per me. Chiederti ancora tante cose. Bere qualche buona bottiglia e poi fare una lunga passeggiata notturna per Roma. Commentare insieme i programmi della radio che amavi quanto me.
Ciao Gio, grazie per tutto quello che sei stato, sono stata fortunata a averti accanto.
Rosa Polacco
Nota della redazione del Diario
Giovanni Rispoli è morto il 17 dicembre, a 70 anni, dopo una malattia che ha “affrontato con eroismo”, per dirla con le sue stesse parole. Come ha scritto l’ex collega Davide Orecchio su Collettiva, la testata online della Cgil: “se esiste un modo di morire con eleganza, con classe, sicuramente Giovanni lo conosceva e lo ha praticato”.
Aveva iniziato la carriera nel giornalismo moltissimi anni fa, ai Quaderni di Rassegna sindacale, con Aris Accornero. Poi era passato al settimanale, Rassegna, dove, fino alla pensione, ha raccontato il mondo del lavoro, il sindacato, la Cgil, con una capacità di analisi e di scrittura ammirevoli. Raffinatissimo intellettuale, è stato un punto di riferimento per una generazione di giovani giornalisti a cui ha insegnato il mestiere con passione, rigore e humor.
Noi del Diario del Lavoro, che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, oggi lo ricordiamo con dolore e affetto.