A 87 anni ci ha lasciato Umberto Romagnoli, uno dei più importanti giuslavoristi della scuola bolognese e tra i primi assistenti, insieme a Giorgio Ghezzi, Luigi Montuschi e Franco Carinci, di Giuseppe Federico Mancini. Anche chi scrive si onora di aver frequentato quella scuola, sia pure alla sua periferia. Mancini non fu solo il mio Maestro, ma fu anche un amico.
Romagnoli seguì la mia tesi di laurea, più sperimentale che teorica. Si trattava di un tema attinente al diritto sindacale ed era intitolata “Metodi e forme di composizione stragiudiziale dei conflitti di lavoro”. Quando scrissi quella tesi – mi laureai nel 1967 – i lavoravo già da un paio di anni nella FIOM di Bologna. Lo studio e la preparazione di quella tesi mi cambiò la vita e mi portò a considerare da un diverso angolo di visuale l’attività sindacale e a scoprire la grande creatività della contrattazione collettiva e le regole delle relazioni industriali. Lo conobbi – quando anni prima preparavo l’esame di diritto del lavoro – ad una esercitazione in cui era stato invitato Luciano Lama. Ricordo che tra Romagnoli e Lama si sviluppo un dibattito. Romagnoli, allora, proveniva dalla Partecipazioni statali, rimproverò la Cgil di essere in ritardo sui temi della contrattazione aziendale (era il 1962): Lama riconobbe il ritardo, ma volle ribadire che quella esperienza aveva preso forza solo quando era scesa in campo, convertita, la Cgil.
Negli ultimi anni Umberto Romagnoli si era molto avvicinato, in materia di diritto del lavoro, alla Cgil. E con la sua autorevolezza dava un senso alle posizioni di questa confederazione sul piano giuridico. Una delle sue ultime opere – che mi fece avere in draft – era intitolata “Giuristi del Novecento” (Ediesse 2018). Il XX secolo è stato molto importante per il diritto del lavoro che ha trovato un’autonomia rispetto al diritto privato in connessione con le grandi trasformazioni del “secolo breve”. La chiave di volta del saggio di Romagnoli si trova in un brano di giovanni Tarello da cui prende le mosse Romagnoli. «Poco si comprende del funzionamento dell’organizzazione gius-politica di un’epoca e di un paese», scrisse Giovanni Tarello, «se non se ne conoscono gli operatori: tra questi, principalmente i giuristi». Per questo, «una storia del diritto deve praticare il genere letterario della biografia intellettuale».
Giovanni Tarello lo praticò. Lo praticò con determinazione e lucidità per realizzare un progetto globale di rara difficoltà: quello di scrivere una storia della cultura giuridica contemporanea con l’intento di misurare peso e dimensioni della «componente di scelta, e implicitamente di scelta in senso lato politica, che è presente in ogni attività di interpretazione e/o applicazione di formule normative». Sulla base di questo presupposto, Romagnoli sostiene che “al di là delle appartenenze culturali e delle differenti metodologie utilizzate, ciò che unisce i giuristi di cui sono qui riportati i profili è la natura del ruolo che ciascuno di essi ha svolto. Un ruolo che ha le caratteristiche della mediazione intellettuale in presenza della quale la giurisprudenza ha potuto aiutare la società del loro tempo ad assestarsi, almeno per un po’. Dottrina e giurisprudenza, infatti, formano una coppia di fattori interagenti sui quali fa assegnamento lo stesso potere politico, dal più democratico al più autoritario. Mentre sarebbe una sciocchezza affermare che la coppia funziona perfettamente, è ragionevole convenire che la giurisprudenza non può fare a meno della dottrina, ma il loro dialogo non lusinga la seconda più di quanto non metta in soggezione la prima. Infatti, la giurisprudenza è in grado di liquidare una buona dottrina nella stessa misura in cui è in grado di premiarne una cattiva. Definire la giurisprudenza non è complicato. Essa non è altro che il lento sedimentarsi dei responsi emessi dai giudici di merito, di legittimità e, nel dopo-Costituzione, dal giudice delle leggi.
La dottrina invece esibisce di sé un’immagine assai più sfuggente. Qualora, poi, si scoprano capaci di esprimersi con un linguaggio detecnicizzato e deritualizzato, non è escluso che i giuristi-scrittori possano stabilire contatti con la stessa opinione pubblica, orientandola tramite la stampa quotidiana in maniera più o meno argomentata”. Umberto Romagnoli era uno scrittore eccellente. I suoi testi sono colti, brillanti, e il risultato (con le note e le citazioni) di un lavoro e di un impegno di lunga lena nel seguire e partecipare ad un dibattito che si rinnova con le trasformazioni della società. C’eravamo scritti con Romagnoli dopo che gli avevo inviato i miei due ultimi e book: “Storie di sindacalisti” e “O capitano, mio capitano” scritto per il centenario della nascita di Lama.
Mi disse che era stato molto malato e che ne era uscito molto indebolito. Da allora sono trascorsi alcuni anni. Capita, purtroppo di incontrarsi dopo tanto tempo, impegnarsi a non perdere il contatto, ma per ritrovarsi soltanto quando uno di noi “finisce la sua corsa” mentre l’altro è in attesa del “ladro che viene nella notte senza preavviso”. Nel caso di Umberto possiamo riconoscere che ha combattuto la buona battaglia e ha conservato la fede.
Giuliano Cazzola