Ora che ormai ci siamo stabiliti
Quasi definitivamente in questa casa, nominerò gli amici
A cui non è possibile cenare insieme a noi
Vicino a un fuoco di torba nella torre antica, e dopo aver discusso
Fino alle tarde ore arrampicarsi per la scala a chiocciola
Per andarsene a letto: esploratori
Di verità dimenticate, o soltanto compagni della giovinezza,
Tutti, tutti stanotte mi sono nel pensiero essendo morti
William Butler Yeats, In memoria del Maggiore Robert Gregory
(da I cigni selvatici a Coole)
Marco Biagi venne ucciso sotto casa da un manipolo di brigatisti esattamente diciassette anni or sono. I suoi assassini sono stati individuati, arrestati e condannati. Sulla sua figura e la sua opera sembra essere intervenuta una pacificazione degli animi (forse dovuta al fatto che nel 2002 i leader di adesso erano ancora dei ragazzini). Ieri il presidente Sergio Mattarella, nella sede della Fondazione Biagi, ha fatto delle affermazioni importanti che, come altre volte, hanno inteso mandare un segnale al governo sull’importanza della competenza, della mediazione e del pluralismo nel campo del diritto del lavoro.
Una storia chiusa, dunque, che rimane viva nel ricordo e nell’azione quotidiana della moglie Marina e in quella dei suoi allievi? Marco si trovò nel bel mezzo di un aspro conflitto tra la Cgil e il governo Berlusconi. E suo malgrado ne diventò – nel contesto di una polemica politica senza quartiere – un, prima ancora che un avversario nei confronti del quale rivolgere quelle polemiche – spesso aspre, immotivate e ingiuste – che facevano parte della lotta politica allora in corso. Critiche, peraltro, non meno velenose di quelle (più ingiustificate) che Biagi raccolse negli ambienti accademici.
Sono questi processi d’identificazione che non devono più essere permessi. Perchè nell’ombra lavorano forze oscure (magari armate soltanto di un pc) che danno la caccia ai simboli, perché credono di poter fermare il corso della storia denigrando le persone. Pensare, infatti, che in Italia vi fossero sacche di lavoro precario per colpa di Marco Biagi e della legge che portava il suo nome è come attribuire al termometro la responsabilità di una giornata di febbre. In qualità di consulente dei ministri del Lavoro (sono poi questi ultimi i decisori politici) il professore bolognese aveva rielaborato proposte e iniziative che, negli ultimi anni, furono attuate nella stragrande maggioranza dei paesi sviluppati, perchè rispondevano – non già al capriccio di un governo ostile o ai disegni perversi delle forze della reazione in agguato – ma a precise ed ineludibili esigenze dell’economia, della produzione e dell’organizzazione del lavoro.
Le vicende di Marco Biagi e di Massimo D’Antona sono del tutto simile a quella di Ezio Tarantelli, il quale – al pari del ragazzo che denunciò quelle nudità del sovrano che tutti fingevano di vedere elegantemente vestito – riconobbe esplicitamente (convincendo un importante sindacalista come Pierre Carniti) che la scala mobile sulle retribuzioni era una delle principali cause dell’inflazione a due cifre che, prima ancora dell’economia, devastava le buste paga dei lavoratori. Era una verità talmente evidente che nessun economista onesto avrebbe mai potuto smentire. Ma quella verità fu messa a tacere con il piombo.
Con Marco fece il suo ingresso nel glossario del diritto del lavoro il concetto di benchmarking, un metodo di apprendimento – così lo ha definito Michele Tiraboschi – continuo e reciproco nel campo delle politiche dell’occupazione incentrato sullo studio delle migliori pratiche presenti negli altri paesi. benchmarking, cioè valutando di volta in volta – è scritto nel Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia dell’ottobre 2001 – il contesto di altri Stati membri dell’Unione Europea, ma anche esperienze extracomunitarie di Paesi che con noi competono su scala globale come gli Stati Uniti e il Giappone. Si tratta di individuare le buone pratiche affermatesi nei diversi contesti nazionali od anche regionali, approfondendone le potenzialità ed i fattori di successo, per riflettere in termini di possibile trasposizione in altri contesti>.
E Marco Biagi non esitò a divenire un , attento a quanto si muoveva nel limbo dei nuovi rapporti di lavoro. Mentre i suoi colleghi contrassegnavano le aree grigie del mercato del lavoro con la classica scritta <hic sunt leones>, Marco parlava apertamente di cioè di, fino a spingersi a varcare il confine della <flessibilità normata>, nella consapevolezza che il primo dovere del giurista è di portare la laddove non esiste: una regola che serva alla società reale e che non pretenda di fare il contrario, di costringere cioè i processi fattuali a sottoporsi a norme insostenibili e perciò condannate ed essere violate, neglette od eluse.
Biagi rifiutava cioè l’idea e la concezione di un diritto immutabile, ormai ibernato nell’ideologia, proteso ad escludere e ad ignorare quanto non fosse riconducibile ai soliti canoni. La vera differenza, infatti, sta nel fare o nel non fare, nell’innovare con responsabilità e coraggio o nel conservare con egoismo ed ostinazione. Che altro dire diciassette anni dopo? Lo stesso fato, che lo strappò agli affetti più intimi, ha voluto risarcire Marco, restituendo la sua opera alla verità. Certamente, Marco è vivo nel ricordo dei suoi cari, degli amici e di quanti lo conobbero e lo stimarono. La sua tragica sorte gli ha persino consentito di individuare e denunciare – in proprio e senza facoltà di smentita, perché i morti non si possono smentire – quel reticolo di responsabilità – anche indirette – che ne misero in pericolo la vita e lo trasformarono in un obiettivo delle BR.
Pensando al destino di questo amico viene in mente il verso del Salmo: “Quale mensa Tu imbandisci sotto gli occhi dei miei nemici !”. Marco era un cattolico praticante; conosceva il significato del martirio come testimonianza. Per lui la vita non avrebbe avuto senso se non fosse stata illuminata da principi in nome dei quali vale la pena di perdere tutto.
Giuliano Cazzola