Ho letto con partecipazione e commozione il commiato che l’amico direttore Massimo Mascini ha scritto in memoria di Guglielmo Epifani. Tanto che mi sono rammaricato di non poter leggere, per motivi evidenti, ciò che lui scriverà (se vorrà farlo) per me quando lascerò questa valle di lacrime. La morte di Guglielmo ha significato per chi scrive un richiamo all’ “estote parati”, essendo ormai uno dei pochi sopravvissuti dell’ultimo gruppo dirigente socialista della Cgil, prima che tutto, in un batter d’occhio bruciasse nel falò del partito. Ho conosciuto Epifani 50 anni fa; per almeno venti abbiamo lavorato con stima reciproca, solidarietà ed amicizia. Eravamo io e lui dapprima molto legati a Piero Boni; poi divenimmo tra i più stretti collaboratori, nell’ordine, di Dino Marianetti ed Ottaviano Del Turco. Quando si aprì la consultazione per la successione di Del Turco io mi espressi in suo favore e non di Fausto Vigevani che pure si era candidato. Negli altri trent’anni abbiamo seguito percorsi politici, professionali e addirittura scelte di vita differenti. Per quanto mi riguarda ho sempre mantenuto, anche quando eufemisticamente “ci eravamo persi di vista”, nei confronti della sua persona quella stima e quel rispetto che indubbiamente meritava per la sua cultura, la sua preparazione e la lunga pratica acquisita nelle esperienze di direzione sindacale e politica (soprattutto per l’equilibrio che, da esterno, mi sembrò che svolgesse da segretario/commissario del Pd). Non posso tuttavia cambiare giudizio politico sul ruolo e le politiche di Guglielmo ai vertici della Cgil, prima come vice di Sergio Cofferati, poi come primo – ex socialista iscritto ai Ds, quindi “redento” – in qualità di segretario generale. Guglielmo – sia pure in maniera garbata – condivise le scelte di Cofferati contro ogni possibile modernizzazione del diritto del lavoro: dal Libro bianco sul mercato del lavoro di cui fu principale protagonista Marco Biagi, alla legge che porta il nome del giurista ucciso dalle Br. Quello spirito innovatore che allora venne duramente combattuto ritrovò vigore nelle politiche del lavoro del governo Renzi: dal decreto Poletti sul lavoro a termine, al pacchetto del jobs act. Contro ogni parziale modifica dell’articolo 18 dello Statuto, Guglielmo prese parte alla campagna “talebana” (è una mia opinione) scatenata da Sergio (col quale ho lavorato a lungo, sia ai chimici che in segreteria confederale). Ma l’atto che io giudico di una gravità politica inaudita (e che non può finire nel dimenticatoio degli onori funebri) fu quello dell’aver schierato la Cgil per il sì nel referendum sull’abolizione del limite dei 15 dipendenti di cui al solito articolo 18. Nessuno in buona fede avrebbe potuto sottovalutare le conseguenze nefaste che un vittoria dei sì in quella consultazione avrebbe recato all’economia e al mercato del lavoro. Ovviamente io non sono abilitato a rilasciare o togliere quelle patenti di riformismo illuminato che in questi giorni hanno accompagnato l’eterno riposo di Guglielmo. Penso tuttavia – e avverto il dovere di dirlo – che il riformismo in quelle occasioni non abitasse lì: nella Cgil di Guglielmo. Come tanti di noi, Epifani era debitore di Ottaviano Del Turco. Una persona di grande umanità e gentilezza come Guglielmo avrebbe fatto bene a ricordarsene – in qualità di segretario della Cgil e di amico personale – quando il 14 luglio del 2008 ebbe inizio il calvario di una persona perbene.
Giuliano Cazzola