“Al posto degli uomini abbiamo sostituito dei numeri” è una frase di Federico Caffè ancor oggi più che valida. Basta osservare l’andamento del Pil previsto dl Governo per i prossimi tre anni: 1.1%, 1%,1%. Numeri che non fanno fiducia, che non generano crescita utile per dare lavoro quanto servirà, che continuano ad esporre l’economia italiana ai rischi di stagnazione. Riforme e risorse, si dice, possono cambiare questo scenario che perfino il benevolo, ora, Junker giudica troppo debole pur apprezzando gli sforzi italiani per tenere in linea i conti.
Ma cosa manca allora per indicare una direzione di marcia più precisa, meno tentennante, meno gravida di incertezze? Manca probabilmente una maggiore consapevolezza di dover puntare alla costruzione di una vera prospettiva di ripresa e di cambiamento che abbia la forza di investire l’intera società. La crisi della politica, tuttora evidente se non altro per i veleni che genera, ne è una riprova.
Di recente hanno fatto discutere alcune espressioni di Domenico De Masi, brillante e quasi mai allineato sociologo. Se in passato lo avessimo preso un po’ più sul serio quando “profetizzava” sui cambiamenti sociali e tecnologici non avremmo di certo perso tempo.
De Masi sostiene, lo fa in un suo libro, che praticamente tutto quello che esprime la nostra società, dalla autorevolezza, al prestigio alla rispettabilità porta dritto ad un valore-chiave, quello del lavoro. Di conseguenza “il lavoro negato ad un numero crescente di individui che vengono gettati nella disperazione” diventa il sintomo di una società che, potremmo dire, non riesce più a vivere condividendo un comune destino .
De Masi però prosegue in una riflessione che non può trovarci completamente d’accordo quando sottolinea che “stare a casa vuol dire marcire. Uscire di casa e regalare un brandello della propria professionalità significa autorealizzarsi”. Non solo, questo lavoro offerto gratuitamente dai disoccupati sarebbe anche un modo per contestare ad esempio “lo strapotere della concorrenza e dello spreco..” e quel costume che spinge sempre di più a far franare il concetto di comunità. De Masi conclude: “mille volte meglio lavorare gratis che non lavorare affatto”.
E qui non ci siamo più: perché è lecito dubitare fortemente che su questa strada si possa davvero cambiare in meglio la nostra società. E questo lo si può desumere dal fatto che tutto il resto dell’attuale sistema istituzionale, economico e sociale in realtà verrebbe appena scalfito, nella migliore delle ipotesi da questa “generosità” dei disoccupati. Tenendo per giunta conto del fatto che le diseguaglianze di reddito e territoriali che sono il grande problema che ci sta di fronte rimarrebbero con le loro caratteristiche sempre più emergenziali.
Eppure nel vuoto di riflessioni che vadano oltre le battute od il piccolo cabotaggio economico testimoniato anche dalla minicrescita del Pil prevista, anche le provocazioni di De Masi diventano un utile momento per cercare di guardare oltre le questioni dell’oggi, per spingerci più in là e provare ad attivare un confronto di qualità diversa.
Se non altro lo dovremmo fare perché nella vita economica e sociale del nostro Paese ci sono esempi di vitalità che non possono essere lasciati al loro destino: parlo della innovazione, della tenuta del sistema delle piccole imprese, ma anche della vivace e positiva attività contrattuale di cui abbiamo dato buona prova e che ci proietta verso un futuro che sarà pure una sfida difficile ma può essere anche una grande opportunità per il sindacato ed il rapporto fra esso ed i lavoratori. Fatto quest’ultimo che ha nel passato generato nuovi diritti, partecipazione e rinnovamento delle classi dirigenti.
Sono convinto e non da ora che per provocare una svolta reale nell’economia italiana occorre una strategia di lungo periodo che deve basarsi però su alcune direttrici chiare. E’ essenziale che vi sia l’afflusso di investimenti pubblici pari ai compiti che devono assolvere sia per ridare fiato a politiche industriali nuove, come la green economy ad esempio, sia per la manutenzione del territorio, sia per sostenere politiche del lavoro che non si risolvano in assistenza mascherata ed a pelle di leopardo. Sono altresì convinto che una ancora lunga stagione di bassi salari sarebbe davvero deleteria per l’intero funzionamento della nostra economia: serve la leva fiscale che se non potrà avvalersi di una profonda riforma dell’Irpef, dovrà però imboccare necessariamente quella di una detassazione robusta e convincente.
Ma dovremo fare i conti, inevitabilmente, anche con il tema controverso della riduzione degli orari di lavoro.
E non per inseguire sogni od utopie, o per alleggerire la penosità del lavoro (a quello ci pensano già le nuove tecnologie) ma perché il lavoro sta cambiando velocemente ed esige nuove soluzioni. In questo senso il discorso di De Masi non appare convincente: la strada di un volontariato per scongiurare il pericolo di avere una massa di lavoratori demotivati ed ai margini della società non mi pare la più giusta, ma neanche la più conveniente.
Noi dovremmo tendere, ragionando e discutendo a fondo ovviamente, invece a realizzare una dinamica delle attività che si avvicini sempre più ad una società “aperta” e vitale h24. Compito assai complesso, sul quale nessuno può avere la ricetta giusta in tasca. E che non deve però neppure spaventare: non si tratta di imporre modelli, ma di ragionare su come contribuire a ideare soluzioni nuove. Ad esempio una riflessione da compiere dovrebbe riguardare l’ipotesi di diminuire gli orari delle persone, ma aumentando quello delle attività di produzione e dei servizi. Questo potrebbe avvenire aumentando i turni di lavoro e con una diversa organizzazione della vita collettiva. Potremmo superare così anche dei paradossi: negozi e supermercati aperti 24 ore, uffici pubblici che fanno poco tesoro delle nuove tecnologie e che non sfruttano come si potrebbe fare l’intera giornata e la stessa settimana. E non si tratta solo di assorbire, sul serio, disoccupazione od evitare esuberi in continuazione come sta avvenendo sull’onda di imponenti ristrutturazioni come nel settore dei servizi a cominciare da quello bancario. Si deve invece smetterla di piangersi addosso nel timore che la quarta rivoluzione industriale lasci milioni di persone senza un percorso di lavoro e professionale e le forze sociali senza più quel compito di equilibrio e di coesione da assicurare al sistema. Perché l’altro nodo che non par presente nel ragionamento di De Masi è proprio questo: disoccupazione e lavoro precario, se non sappiamo intervenire per tempo, rischiano di riguardare buona parte delle nuove generazioni, ovvero milioni di individui.
Si tratta quindi di comprendere adesso che l’attuale società non potrà comunque reggere all’evoluzione dei tempi così come è. Immobile ed immutabile, salvo qualche correttivo. Diventa saggio allora non solo prepararsi ma sperimentare anche nuove strategie.
Occorrono strategie di società, prima ancora che di settori o di destini territoriali o individuali. Ben sapendo che non è in gioco solo un valore fondamentale come quello del lavoro ma molto di più: sono in gioco i rapporti fra le persone, la possibilità di avvertire l’associarsi, il collaborare, il discutere che un invadente individualismo potrà sempre più mettere in discussione.
Creare più lavoro non è solo, soprattutto per corpi intermedi come il sindacato, un obiettivo più che mai indispensabile, ma è anche l’approdo di una società che non vuole frantumarsi, che vuole continuare a far circolare idee e culture, che vuole vivere di progetti e non solo di tweet o di battute su facebook.
Ecco perché si potrebbe ripartire da una riflessione a tutto campo, su come poter attivare al meglio l’intera società, quel grande patrimonio di professionalità e di voglia di lavorare per realizzarsi che esiste nel nostro Paese. E questo può avvenire riscoprendo il gusto di lanciare nuove idee, provocazioni, proposte, tutte da verificare ed approfondire. Ma in grado di spingerci a guardare avanti in tempo. Perché da questa discussione potranno emergere anche altre ipotesi di soluzioni sui problemi che abbiamo da affrontare: si pensi ai diversi tipi di lavoro, questione riesplosa con i voucher, alle prospettive del welfare, alle esigenze di riorganizzazione del sistema sanitario. Come collocare tutto questo in uno scenario sociale, economico e politico adeguato ai tempi? La domanda è impegnativa, ma serve avvicinarsi ad essa oggi non domani o dopodomani.
E il pensiero torna inevitabilmente a che tipo società in gran parte nuova che va delineata, gradualmente certo, ma con convinzione. In questo modo, forse daremmo anche una risposta a Caffè: i numeri sono tornati persone, son tornati ad essere un futuro da costruire.