Scrivo questo blog per scusarmi. Con la Scuola di Relazioni Industriali del Diario del Lavoro e personalmente con Massimo Mascini, Mimmo Carrieri e i ragazzi che partecipavano alla “lezione” del primo di giugno. Non certo con Pietro De Biasi che mi ha interrotto dalla platea mentre iniziavo la mia relazione dandomi del “disonesto intellettualmente”. Non mi è mai capitato in più di trent’anni di “onorata carriera” sindacale che qualche rappresentante di impresa mi desse del “disonesto” né intellettualmente né contrattualmente. Si discuteva, spesso si litigava ma ci si rispettava e alla fine si firmavano accordi difficili (penso a Montedison, Eni, Finmeccanica, Olivetti, Electrolux, per citare solo i maggiori) con chiusure di impianti, cassa integrazione e, a volte, accordi remunerativi e innovativi, fino al famoso “Testo Unico sulla Partecipazione” di Electrolux. Quasi sempre con l’assenso esplicito dei lavoratori, qualche volta assumendoci le nostre responsabilità di segretari nazionali (Fim Fiom Uilm) malgrado il dissenso delle RSU, come all’Alenia di Pomigliano.
Siccome però il mestiere sindacale mi ha abituato a pensare che anche il più arrogante dei tuoi interlocutori qualche ragione potrebbe avercela, sono andato a riascoltarmi l’intervento del Dr. De Biasi, per vedere cosa non avevo capito o cosa avevo frainteso. La mia opinione personale è la seguente. Il Dr. De Biasi ha esposto il sistema di relazioni industriali praticato dalla Fiat (negli anni 2000) basato sull’idea che il Ccnl di settore sia strumento (come in altri paesi europei) di tutela e garanzia minima per chi non ha relazioni contrattuali di nessun tipo con la propria azienda (e che quindi non debba avere valore vincolante erga omnes). Cioè l’esatto opposto di quello che accade in Italia da 70 anni. Che sia invece il contratto aziendale di gruppo il luogo in cui si possa agire declinando tutti i temi riguardanti le condizioni di lavoro in deroga (positiva o negativa) dal Ccnl. Ho capito male? Non voleva dire questo? Se è così mi scuso anche con il Dr. De Biasi: ma sarebbe un problema di anzianità, il mio… non certo di “disonestà intellettuale”. Se invece ho capito bene mi tocca insistere: quello illustrato non è un modello contrattuale nazionale (la Fiat che “pensa al Paese”, non scherziamo…) ma il sistema Fiat, punto. Che non è stato accettato nemmeno da Confindustria malgrado il sostegno che il Ministro Sacconi ha tentato di dargli con il famoso art. 8 dell’ottobre 2011, tanto da far decidere a Sergio Marchionne di abbandonare Confindustria e le regole contrattuali italiane dal primo gennaio del 2012. Non so dove fosse allora il Dr. De Biasi, io in quei mesi difficili partecipavo come Cgil al tavolo con Confindustria, presieduto da Emma Marcegaglia: il tavolo che produsse il nuovo sistema contrattuale (28 giugno 2011) su cui si scatenò la controffensiva Fiat. Senza riuscire a coinvolgere altre grandi imprese, per fortuna. In sintesi: alcuni manager di scuola non italiana hanno imposto in Fiat un sistema contrattuale non italiano. Nessun problema, ma non vengano alla “Scuola di Relazioni Industriali” a spacciarlo per un modello generale di riferimento perché non lo è mai stato.
Se poi qualche partecipante alla Scuola mi chiedesse perché Confindustria ha preferito subire l’uscita della Fiat piuttosto che aprire uno scontro con i sindacati in quella fase negoziale, io risponderei che lo ha fatto per tenere unito il suo sistema di rappresentanza delle imprese. È noto infatti che molti associati a Confindustria di piccole dimensioni preferiscono un Ccnl certo e vincolante per l’intero settore, (e magari una contrattazione integrativa territoriale, come gli edili e gli artigiani) piuttosto che dover “sopportare” una vertenza sindacale nella propria azienda. Viceversa le imprese di grandi dimensioni preferirebbero non avere vincoli contrattuali di settore e regolare le condizioni del lavoro in azienda (fatti salvi eventuali minimi e massimi di legge). Con i 2 livelli contrattuali (non obbligatori, non alternativi fra loro ma volontari e complementari), Confindustria governa ancora il suo complesso sistema di rappresentanza, malgrado il ripudio da parte della Fiat. La Fiat è stata per anni il monopolio nazionale dell’automobile (anche per errori del sindacato ai tempi dell’Alfa Romeo). Non è mai stata un esempio di buone relazioni sindacali, anzi, un’anomalia. Una strana singolarità, direbbero i fisici, che malgrado le sue dimensioni non è in grado di esercitare alcuna forza di attrazione.
Altra osservazione che avrei fatto l’altra mattina se avessi avuto la possibilità di continuare la mia relazione è che bisogna stare attenti quando si confrontano i modelli contrattuali e di partecipazione tra l’Italia e gli altri paesi europei. Perché da noi vige il “canale” unico di rappresentanza che elegge le RSU dei lavoratori (tutti i lavoratori, non solo gli iscritti al sindacato). In altri Paesi, tra cui la Germania, il sistema è doppio: i rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti degli iscritti al sindacato con diversi e separati ruoli e diritti. Anche in questo caso io preferisco il modello italiano, perché unifica e fa crescere le responsabilità (di informazione, partecipazione, contrattazione, ecc.) ed evita di separare chi ha le informazioni da chi decide gli scioperi: chi partecipa a prescindere da chi è conflittuale per principio. Preferisco quello italiano anche per aver frequentato il modello svedese assieme al Dr. Maurizio Castro.
Chiudo, con un sorriso, ricordando al Dr. Castro quanto abbiamo faticato a spiegare (lui ed io) a uno storico delegato della Fiom Zanussi, inviato a Stoccolma a rappresentare i lavoratori di Electrolux Italia, che non gli scappasse di dire che era un delegato Fiom: doveva dichiarare di essere rappresentante dei lavoratori italiani del gruppo e basta. Quel delegato Fiom ci guardava stranito perché faticava a capire, ma anche noi, il senso di quella distinzione “nord europea”…
Dice: “Ma che, sei diventato nazionalista? un sindacalista sovranista?”. Certo che no. Ma voglio dare il giusto valore alle esperienze fatte e ai risultati ottenuti dalle relazioni sindacali italiane negli anni della globalizzazione. Non compro a scatola chiusa la prima merce che viene spacciata come il “moderno modello europeo delle relazioni industriali”. Ci mancherebbe.
Gaetano Sateriale