Acquista importanza ogni giorno di più il confronto in programma lunedì della prossima settimana tra il presidente di Confindustria e i vertici di Cgil, Cisl e Uil. Perché è la prima volta che si incontreranno e non si sa come reagiranno, anche se sono tutti uomini (e donne) di mondo ed è ben difficile che si lascino scappare una frase di troppo. Ma soprattutto questo appuntamento cresce di rilevanza perché i problemi aperti sono tantissimi e di tale spessore da poter determinare l’assetto economico del nostro paese.
Il pezzo forte dell’incontro sarà naturalmente quello del rinnovo dei contratti di lavoro. Molti tavoli sono aperti già da molti mesi, ma tutti sono più o meno fermi. Le trattative languono, le incomprensioni crescono, manca evidentemente un accordo di base su come comportarsi. Il confronto potrebbe essere decisivo, anche perché è stato Carlo Bonomi a muovere le acque fin dalle sue prima battute quando ha rimesso in gioco la struttura contrattuale ormai consolidata. Appena eletto, in qualche caso anche prima, ha cominciato ad affermare che bisognava cambiare sistema, sostenendo che il contratto nazionale deve perdere centralità a favore dei contratti di azienda, dove è possibile trattare cambiamenti organizzativi che facciano salire la produttività, il tallone d’Achille della nostra industria. Un’indicazione che ha fatto chiudere a riccio i sindacati, determinati nella difesa del contratto nazionale perché non credono nei contratti d’azienda, soprattutto perché questi si fanno solo nelle grandi strutture, ma sono del tutto sconosciuti nelle piccole e nella gran parte delle medie aziende.
Né ha aiutato il riferimento più volte fatto dal presidente degli industriali al contenuto dell’ultimo accordo interconfederale, il Patto della fabbrica, ricordando che questo parlava a proposito dei salari della necessità di tener conto del Tem e del Tec, del trattamento economico minimo e di quello complessivo. I sindacati conoscono bene questi termini, non fosse che perché quell’intesa l’hanno firmata, ma non hanno capito a cosa mirasse effettivamente il presidente degli industriali. Il loro timore è che le imprese vogliano limitare al massimo la crescita dei salari per non aggravare i bilanci, già colpiti dal calo della produzione per colpa della pandemia nei mesi passati.
Nessuno, tanto meno i sindacati, ignorano le difficoltà delle imprese, ma Cgil, Cisl e Uil, non credono assolutamente che sia il caso di abbassare o non far crescere in questo momento i salari perché questi comunque sono molto bassi e poi perché il male più forte dell’economia italiana oggi è la debolezza della domanda interna, che certamente si alimenta con aumenti salariali di una cera consistenza. E’ qui che il discorso, e quindi anche il confronto della prossima settimana, si fa più complesso, perché sconfina nella macroeconomia, che presenta diversi aspetti molto rilevanti che le parti sociali non possono non tenere nella debita considerazione. Perché in questi prossimi mesi tutta la struttura produttiva del nostro paese dovrà essere sottoposta a un processo di ristrutturazione molto profondo e dipenderà dalle decisioni che verranno prese in queste settimane se il nostro paese risalirà la china discendente che ha intrapreso negli ultimi venti anni o si dovrà invece accontentare di un ruolo molto minore rispetto a quello svolto in questi anni.
Il punto è che l’economia italiana arranca da troppo tempo. Le statistiche di tutto il mondo ci vedono troppo spesso nelle ultime posizioni. Siamo l’unico paese europeo che prima della pandemia non aveva ancora recuperato la caduta del 2008. La produttività è ferma da 25 anni almeno. Quando siamo arrivati al lockdown eravamo a un passo dalla recessione, forse ci eravamo già dentro. Una situazione di estrema difficoltà, dalla quale non si esce se non con una profonda ristrutturazione: non un intervento di restauro, un’incisione profonda per estirpare il male. Un’azione decisa, chirurgica, che può fare solo del bene, ma deve essere fatta velocemente, con mano esperta e salda.
Il punto, positivo, è che adesso abbiamo le disponibilità economiche che servono a questo intervento. I 200 e passa miliardi che l’Europa è disposta a fornirci, in parte come regalo, in parte come prestito da rimborsare però tra davvero molti anni, a questo possono e debbono servire, a rimetterci in carreggiata, a darci la possibilità di cambiare sistema di produzione, avviandoci nei settori che promettono e abbandonando quelli vetusti e ormai antieconomici.
Le parti sociali, appunto Confindustria e sindacati, a questo devono guardare, di questo devono preoccuparsi, cercando un accordo tra loro proprio sulle direttrici di fondo di questa riforma profonda della struttura produttiva che dovrà essere attuata, in modo da potersi poi offrire all’esecutivo come un valido partner e non come parte richiedente. I sindacati insistono da tempo per essere chiamati dalla politica a un confronto a tutto raggio per creare le basi di una vera ripartenza. Bonomi fin dalle prime battute della sua lunga campagna elettorale ha sempre puntato sulla necessità che Confindustria riprenda un ruolo alto, non si limiti a fare lobby, torni a una presenza attiva dove si decidono le cose importanti, non dove si distribuiscono mance. Quindi quanto meno le posizioni utili al via di un confronto valido ci sono.
Si tratta di entrare nel merito, dimostrare di saper svolgere quel ruolo al quale affermano di tendere. Ciascuno per proprio conto dovrà affrontare il confronto con un massimo di disponibilità, pronti a mettere sul tavolo azioni e decisioni importanti. Naturalmente ciascuna parte dovrà dimostrare di essere capace di imprimere anche alle proprie strategie i cambiamenti che si rendessero necessari. Dovranno, per esempio, decidere il futuro degli ammortizzatori sociali, un compito difficile, perché si riferisce alla condizione delle persone che stanno peggio e che hanno bisogno di essere aiutate. Un altro tema difficile verrà quando si discuterà del blocco dei licenziamenti, che i sindacati vorrebbero mantenere almeno fino alla fine dell’anno, mentre le imprese vorrebbero porre un limite preciso, nella considerazione che un’azione profonda di ristrutturazione non può esistere se si vuole ingessare l’economia. I problemi si risolvono guardando al fondo di essi, e questo devono fare lunedì le parti sociali. Se si limitassero a litigare perché i contratti non vengono rinnovati o a pretendere l’affondamento di un sistema di diritti consolidati verrebbero meno al loro dovere. Tornerebbero a un ruolo di secondo piano, forse di terzo, uscirebbero di scena, almeno da quella principale.
Massimo Mascini