“Per prima cosa vorrei dire che noi, come Fiom-Cgil, continuiamo a chiedere al Governo di convocare urgentemente un tavolo con ArcelorMittal e con gli altri sindacati, cioè con i soggetti firmatari dell’accordo del 6 settembre 2018.”
“In particolare, deve essere chiaro che il sindacato non delega a nessuno il compito di rappresentare i lavoratori nel negoziato sulle prospettive industriali, occupazionali e ambientali dell’acciaieria di Taranto e, quindi, sulle prospettive dell’intero gruppo Ilva.”
Siamo a colloquio con Gianni Venturi, nel suo ufficio al secondo piano della storica sede dei sindacati dei metalmeccanici, una palazzina anni 70 sita in corso Trieste, a Roma.
Venturi è il responsabile della siderurgia nella segreteria nazionale della Fiom-Cgil e, in questi giorni densi di incontri e di riunioni, vive minuto per minuto la vicenda dell’ex Ilva, giunta al suo snodo più drammatico. Ci riferiamo, ovviamente, all’annuncio, dato ai Commissari Straordinari il 4 novembre scorso, che ArcelorMittal, il colosso franco-indiano dell’acciaio vincitore della gara per l’acquisizione del più grande gruppo siderurgico italiano, intende recedere dal contratto entrato in vigore il 31 ottobre del 2018.
Allora Venturi, come si esce da questa situazione?
La vicenda Ilva non può essere trattata come un’ordinaria vertenza aziendale, né tantomeno può essere trasformata in un campo di battaglia giudiziaria sul diritto, o meno, dell’azienda al recesso. Mi pare evidente che si tratti di una vicenda che parla della credibilità di un intero Paese, ma anche della credibilità di una grande multinazionale.
Il nostro riferimento è e rimane l’accordo del 6 settembre dell’anno scorso. Noi pensiamo che debbano essere confermati gli impegni e i vincoli che sono stati liberamente assunti da ArcelorMittal per vincere una gara internazionale di evidenza pubblica, o in conseguenza della aggiudicazione così conseguita. Ricordo, peraltro, che tale aggiudicazione ha dovuto passare il severo esame dell’Antitrust europea che ha obbligato la stessa ArcelorMittal a cedere quote equivalenti di capacità produttiva installata con la vendita di diversi siti in Europa, tra cui quello storico della Magona a Piombino. Per noi, come credo sia ovvio, tale accordo è quindi vincolante sul piano industriale, occupazionale e ambientale. Naturalmente, vincolante per tutte le parti, a partire dal Governo della Repubblica italiana.
Che significa questo tuo “per tutte le parti”?
E’ evidente che nel momento in cui si ritiene di dover investire sulla capacità della nostra industria manifatturiera e sulla sua centralità strategica rispetto al nostro modello di sviluppo, non si può non avere una legislazione ragionevolmente stabile che consenta, a chi intenda investire in particolare in settori ad alta intensità di capitale, caratterizzati da remunerazioni di medio-lungo termine, di poter contare su norme certe. Evidentemente, non è stato questo il caso del cosiddetto scudo penale, prima introdotto, poi modificato, poi quasi reintrodotto in extremis e, infine, soppresso.
Per noi, a questo punto, è essenziale l’introduzione di una nuova norma legislativa di carattere generale, ma circoscritta alle prescrizioni e ai tempi delle specifiche Autorizzazioni integrate ambientali (Aia) relative ai siti considerati strategici per l’economia nazionale.
Resta il fatto che ArcelorMittal ha detto che vuole recedere dal contratto di affitto di rami d’impresa finalizzato all’acquisto dell’Ilva. Oltre al varo di un provvedimento che crei uno strumento legislativo che abbia la stessa efficacia dello scudo penale, cosa potrebbe offrire il Governo ad ArcelorMittal per convincere questa impresa a cambiare idea?
Noi vediamo con favore l’ipotesi relativa all’ingresso da parte dello Stato nell’assetto proprietario dell’ex Ilva, con una quota di minoranza, attraverso Cassa depositi e prestiti o strumenti similari.
Ciò perché, oltre a garantire il rispetto degli impegni e dei vincoli assunti, per questa via si potrebbe e dovrebbe rafforzare una linea di investimenti in tecnologie avanzate che sia in grado di andare verso una soluzione definitiva al conflitto che si è determinato in questi anni fra due diritti costituzionalmente tutelati che ho appena ricordato – il diritto al lavoro e il diritto alla salute -, allineando la sostenibilità delle produzioni siderurgiche del nostro Paese a quelle degli altri Paesi europei più avanzati.
Si tratta, insomma, di individuare strumenti e veicoli di politica industriale che siano in grado di orientare le grandi transizioni del nostro sistema industriale, da quella energetica a quella digitale, verso approdi di maggiore sostenibilità ambientale.
Mi par di capire che non volete prendere neppure in considerazione un’ipotesi di chiusura dell’Ilva.
Certo che no. L’Ilva occupa un posto centrale nella struttura della nostra industria manifatturiera. Ciò per vari motivi. Innanzitutto, ricordo che quando si parla del gruppo Ilva non si parla solo, come troppi fanno, della grande acciaieria di Taranto. Il gruppo comprende, infatti, anche gli stabilimenti e i centri servizi di Cornigliano, alla periferia Ovest di Genova, Novi Ligure, in provincia di Alessandria, Racconigi, in provincia di Cuneo, Paderno Dugnano, nei pressi di Milano, Legnaro, in provincia di Padova, e Marghera, sulla costa adriatica di fronte a Venezia. Il tutto per un totale di 10.777 addetti. Per non dire dell’indotto e del sistema degli appalti che occupano, almeno, altri 15.000 lavoratori.
In secondo luogo, sottolineo l’importanza del rapporto che si determina fra la produzione siderurgica e i consumatori finali dell’acciaio: settori come l’automotive, i veicoli industriali e commerciali, le macchine agricole e movimento terra, il materiale ferroviario, la cantieristica navale, le macchine utensili, gli impianti industriali, gli elettrodomestici e altri ancora. Insomma, quei settori che costituiscono l’industria metalmeccanica, ovvero l’asse portante del nostro sistema manifatturiero. Quel sistema grazie a cui l’Italia, come spesso ripetiamo con orgoglio, è la seconda potenza manifatturiera d’Europa.
In terzo luogo, va ricordato che l’assetto attuale del settore siderurgico del nostro Paese è rovesciato rispetto a quanto accade negli altri Paesi europei. Da noi, il 60% della produzione siderurgica viene realizzata con la tecnologia del forno elettrico ad arco, che parte dal rottame di ferro, mentre solo il 40% viene realizzato col cosiddetto ciclo integrale, che parte dai minerali. Invece, in Paesi quali Germania, Francia, Spagna e Belgio avviene il contrario, con una netta prevalenza del ciclo integrale. Ora se dovesse chiudere la famosa Ferriera di Servola, presso Trieste, dopo la chiusura, avvenuta anni fa, delle aree a caldo degli stabilimenti di Genova e poi di Piombino, in Italia resterebbe un unico sito dove viene prodotto acciaio primario, e cioè Taranto. Se venisse spenta anche questa area a caldo, in Italia non ci sarebbe più produzione di acciaio da ciclo integrale.
E questo sarebbe grave?
Certo, e da vari punti di vista. Sottolineo, innanzitutto, che con la situazione attuale si crea un bilanciamento per cui in ragione dell’andamento dei prezzi di mercato delle materie prime – minerali o rottame ferroso – può risultare più competitivo l’uno o l’altro dei due comparti della nostra siderurgia. Se ci fosse solo la siderurgia da forno elettrico, tutta la nostra produzione di acciaio risulterebbe dipendente dal prezzo internazionale del rottame.
Ci sono poi problemi di qualità. Infatti, nonostante i notevoli miglioramenti ottenuti proprio in Italia nella produzione di acciaio con la tecnologia del forno elettrico, rimane il fatto che l’acciaio derivante da ghisa liquida ha caratteristiche fisico-chimiche diverse e migliori rispetto a quello ottenuto dalla lavorazione del rottame.
Ci sono, infine, problemi di scala. Quelli che suggeriscono di sostituire gli altiforni di Taranto con dei forni elettrici non dicono, o non sanno, che per uguagliare la capacità produttiva attualmente installata nell’acciaieria ionica, pari alla produzione teorica di 10 milioni di tonnellate annue, ci vorrebbero dai 10 ai 15 forni elettrici. Infatti, un forno elettrico può produrre, al massimo, fra le 700mila e le 800mila tonnellate annue. Sapendo questo, i conti sono presto fatti. E da questi conti risulta che, inevitabilmente, passare dagli altiforni ai forni elettrici significherebbe, nel migliore dei casi, programmare un significativo contenimento strutturale della produzione. E quindi, ovviamente, anche una riduzione dell’occupazione.
Nel dibattito che si è acceso, o riacceso, in questi giorni attorno alla vicenda Ilva, c’è pero anche chi, indipendentemente dalle scelte di ArcelorMittal, sottolinea che la produzione fatta con la tecnologia dell’altoforno è più inquinante. Lo stesso Presidente della Regione Puglia ha insistito sull’importanza di realizzare una decarbonizzazione del sito di Taranto. Secondo te, si tratta di un obiettivo realistico?
Va detto che rispetto alla problematiche relative agli effetti inquinanti della produzione di acciaio nello stabilimento di Taranto parlare, come spesso si fa, di decarbonizzazione significa usare un termine improprio, per non dire equivoco.
Per gran parte dell’opinione pubblica, quella della decarbonizzazione è una parola d’ordine affascinante. Il fatto, però, è che molti non hanno presente che il carbon fossile, un materiale ricco di carbonio, è, assieme ai minerali di ferro, una delle materie prime fondamentali per la produzione di acciaio a ciclo integrale. Questa nozione elementare sembra sfuggire almeno ad alcuni di quelli che amano evocare la decarbonizzazione.
Va detto, peraltro, che la quantità di carbonio impiegata può essere anche significativamente ridotta attraverso l’utilizzo del gas naturale. Resta il fatto che non può essere azzerata. E ciò proprio perché il carbone non serve solo a produrre energia, ma è un componente dell’acciaio.
Ciò che occorre invece fare a Taranto è accelerare gli interventi relativi ad altri fattori inquinanti, dalle polveri provenienti dai parchi minerari, alle diossine e agi idrocarburi policiclici aromatici contenuti in certe emissioni. Si tratta, cioè, di completare rapidamente la copertura dei parchi minerari, nonché l’installazione – sui camini dello stabilimento – dei nuovi filtri a manica Meros.
Supponiamo che il Governo accolga la vostra richiesta e vi convochi assieme a ArcelorMittal. E’ davvero ancora possibile una trattativa?
Credo di sì, posto che si voglia individuare una soluzione che consenta ad ArcelorMittal di restare in Italia in un quadro in cui vi sia una risalita produttiva verso gli obiettivi dell’accordo del 6 settembre 2018.
Da questo punto di vista, osservo che un conto è ragionare su una flessione congiunturale di mercato, eventualmente anche di non breve periodo. E sottolineo che questa cosa, in misura consistente, è già avvenuta, perché ci sono 1.300 lavoratori che sono stati messi in Cassa integrazione ordinaria per 13 settimane, a partire dal 1° giugno scorso, e che adesso stanno facendo un secondo periodo di altre 13 settimane di Cassa integrazione, sempre ordinaria. Ricordando, di passaggio, che ci sono poi altri 1.800 lavoratori, ancora dipendenti dell’Ilva in Amministrazione straordinaria, che sono invece in Cassa integrazione straordinaria.
Altro conto è che ArcelorMittal faccia una proposta di assetto strutturale dello stabilimento di Taranto basato sulla produzione di 4 milioni e mezzo di tonnellate annue di acciaio invece dei 6 milioni previsti per il corrente anno 2019 o degli 8 milioni previsti per il 2020. Così facendo, infatti, l’azienda non solo deroga rispetto a un vincolo derivante, come ho già ricordato, da una gara internazionale di evidenza pubblica, ma mostra un’insanabile contraddizione con le argomentazioni che la stessa ArcelorMittal svolge per motivare il fatto che l’impianto di Taranto, prevedendo una produzione annua di 4 milioni e mezzo di tonnellate di acciaio, non trova un equilibrio di redditività e di remunerazione dei suoi investimenti.
A questo punto, infatti, è evidente che un assetto basato su 4 milioni e mezzo di tonnellate annue è l’anticamera della chiusura. E ciò tanto più se tale assetto significa, come da più parti viene auspicato, la chiusura dell’area a caldo. Senza area a caldo, Taranto muore.
Nei ragionamenti aziendali sembra però che abbia gran peso la questione degli effetti negativi prodotti sul mercato mondiale dell’acciaio dalla guerra commerciale aperta da Trump verso la Cina.
Rispondo osservando che, da alcuni segnali, sembrerebbe che il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina possa attenuarsi.
Rimangono però, questo va detto, altri elementi di difficoltà, dai costi, accresciuti, di energia e materie prime, all’insufficiente protezione della produzione europea di acciaio da parte della Unione Europea.
Ciò non significa, peraltro, che si debba immaginare una politica europea protezionistica, fatta di dazi. Quella che va fatta è una politica di regolazione delle importazioni e delle esportazioni che tenga conto delle quote di CO 2 e che, quindi, incentivi i comportamenti produttivi delle imprese siderurgiche verso un maggiore impegno sul terreno della progressiva riduzione delle emissioni inquinanti.
@Fernando_Liuzzi