Attesa. Una parola di sei lettere che riassume la situazione attuale della vicenda industriale più complicata del mondo: quella della ex Ilva di Taranto. O meglio, quella dell’intero ex gruppo Ilva, per come si configura a pochi giorni dalla pesantissima (e discussa) sentenza emessa dalla Corte d’Assise della città ionica.
Come è possibile che una vicenda estremamente complessa e stratificata su più piani – industriale, ambientale, tecnologico, legale (civilistico e penale), politico, sindacale, e chi più ne ha più ne metta – possa essere riassumibile con una sola parola, peraltro abbastanza corta? E’ possibile se – rispetto a una storia che è iniziata, come minimo, nella calda estate del 2012 – ci si limita a considerare solo i prossimi giorni. Ovvero uno spazio di tempo che, al massimo, potrà durare di qui fino a domenica 27 giugno. Se non andiamo errati, in quella data scadranno, infatti, i 45 giorni che il Consiglio di Stato ha a sua disposizione per pronunciarsi sulla sentenza emessa dal Tar di Lecce nello scorso mese di febbraio. Sentenza con cui lo stesso Tar aveva ordinato lo spegnimento, entro 60 giorni, della famosa area a caldo dello stabilimento siderurgico di Taranto.
Vedete che la storia, appena uno comincia a parlarne, anche se si sforza di circoscrivere il discorso, quanto meno, in termini temporali, comincia subito a complicarsi? Perché in effetti, a questo punto, peraltro iniziale, del nostro discorso, ci vediamo costretti a ricordare che, a suo tempo, il Tar di Lecce si era pronunciato su un’ordinanza emessa nel 2020 dal Sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci. Ordinanza con cui si intimava ad ArcelorMittal Italia – in quanto affittuaria, in vista dell’acquisto, dei “complessi industriali” di proprietà dell’Ilva in Amministrazione straordinaria – di spegnere, entro 60 giorni, l’area a caldo dello stabilimento di Taranto.
Ora è appena il caso di ricordare che la medesima ArcelorMittal Italia, ovvero l’impresa costituita ad hoc dal colosso siderurgico franco-indiano ArcelorMittal per rilevare l’ex gruppo Ilva, aveva prontamente presentato, al competente Tar di Lecce, il suo ricorso avverso alla citata ordinanza del Sindaco Melucci. E che tale ricorso era stato rigettato dal succitato Tar che aveva quindi disposto lo spegnimento di cui sopra. Da qui il nuovo ricorso di ArcelorMittal Italia al Consiglio di Stato. Il quale ultimo si è riunito in Camera di consiglio il 13 maggio scorso. Data a partire dalla quale, come detto, ha a sua disposizione quei 45 giorni che terminano verso la fine del corrente mese di giugno.
Ora le notizie, o le mancate notizie, che giungono, o non giungono, da Taranto, come dal Ministero dello Sviluppo Economico e da ogni altro luogo significativo per il futuro di Acciaierie d’Italia – il nuovo nome della ex Ilva – lasciano pensare che tutto sia fermo in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato.
L’unico fatto nuovo, certo non particolarmente beneaugurante, è la decisione, comunicata dall’Azienda, di fare nuovamente ricorso alla Cassa integrazione. Nello specifico, andando a scadere la possibilità di utilizzare la cosiddetta Cassa Covid, Acciaierie d’Italia ha fatto sapere che, a partire da lunedì 28 giugno, intende porre in Cassa integrazione ordinaria circa 4.000 lavoratori, attualmente in forza non solo allo stabilimento di Taranto, ma anche a quelli del Nord (Genova, Novi Ligure e Racconigi). Il tutto per 12 settimane, ovvero fin quasi alla fine di settembre.
Per il resto, come si diceva, è tutto fermo. A partire, se ci perdonate il bisticcio, dal fatto che il Consiglio di Amministrazione di Acciaierie d’Italia, la nuova società partecipata da ArcelorMittal Italia e da Invitalia, non è ancora entrato nella sua piena operatività.
A quanto si comprende, a bloccare l’avvio di questa operatività è il fatto che non è stato ancora approvato il bilancio 2020 della ex Ilva. Ovvero il bilancio di un’annata che è stata gestita interamente da ArcelorMittal Italia e di cui Invitalia, l’agenzia del Ministero dell’economia entrata nella proprietà della nuova società in base all’accordo del 10 dicembre 2020, non intende, ovviamente, assumersi nessuna responsabilità.
Sul tutto, incombe la sentenza di primo grado emessa, come abbiamo ricordato, lunedì scorso dalla Corte d’Assise di Taranto al termine del processo (tendenziosamente?) denominato “Ambiente Svenduto”. Al di là della pesantezza delle singole condanne, nonché di un impianto accusatorio che è parso quantomeno discutibile ( e su cui ci proponiamo di tornare in seguito), c’è un aspetto della sentenza che va qui richiamato: la confisca dell’area a caldo.
Domenico Palmiotti ha ricordato sul Sole 24 Ore del 1° giugno che “acciaierie e altiforni dell’Ilva di Taranto non si fermarono a luglio 2012 quando il Gip Patrizia Todisco ne ordinò il sequestro senza facoltà d’uso”. Infatti nel dicembre dello stesso anno, ricorda ancora Palmiotti, il Governo Monti diede agli impianti di Taranto, con un’apposita legge, “lo status di industria strategica nazionale”.
Di per sé la confisca sentenziata adesso dalla Corte tarantina potrebbe avere effetti pratici solo dopo essere stata confermata nei due successivi gradi di giudizio e cioè dopo il processo di appello, che sarà richiesto con ogni probabilità dai condannati, e dopo un possibile futuro ricorso in Cassazione presentato dalle parti eventualmente soccombenti.
Va però detto che, fra gli osservatori, c’è chi ipotizza che la sentenza del 31 maggio possa avere una qualche influenza – non giuridica ma, per così dire, psicologica – sull’attesa pronuncia del Consiglio di Stato.
Concludendo, come si diceva, attesa. Nel senso che, al momento, non ci resta che attendere che il Consiglio di Stato dia forma alla prossima puntata di questa intricatissima vicenda. Una puntata che, da vari punti di vista, potrebbe risultare decisiva.
@Fernando_Liuzzi