In Italia, dopo la Seconda Guerra mondiale, più d’uno fra i giovani che avevano partecipato alla Resistenza entrò a far parte dei gruppi dirigenti del rinato movimento sindacale, inizialmente unitario. La Cgil, è utile ricordarlo, fu infatti rifondata a Roma, dopo trattative svolte in clandestinità dai partiti antifascisti, nella primavera del 1944 e visse una breve fase unitaria che si concluse con le due scissioni del 1948.
Ma torniamo alla fase unitaria e al ruolo dirigente assunto dai giovani partigiani. Alcuni furono chiamati a fare tale scelta, nell’immediatezza della vittoria, dallo stesso ClnAI, il Comitato di Liberazione nazionale dell’Alta Italia. Accadde così a Luciano Lama che, dopo la liberazione di Forlì, fu chiamato ad assumere la guida della rinata Camera del lavoro. Altri, come Vittorio Foa e Bruno Trentin, furono coinvolti nell’attività sindacale da quel grande talent scout che rispondeva al nome di Giuseppe Di Vittorio. Il quale, da leader della Cgil, intuì che era possibile fare, di quei due intellettuali borghesi, due ottimi dirigenti sindacali. Altri ancora, come Pio Galli, dopo la Resistenza avevano cominciato una normale vita di lavoro – come operaio metalmeccanico, nel suo caso -, ma approdarono al sindacato solo in seguito, e cioè dopo essere caduti vittime di quell’ondata di licenziamenti discriminatori che, negli anni ‘50 del secolo scorso, colpì molti militanti della Cgil.
Accadde così che quando, fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 del secolo scorso, cominciai la mia vita di lavoro – prima alla casa editrice della Cgil e poi all’Ufficio stampa della Fiom – di ex partigiani ne ho incontrati parecchi. Con alcuni, come Luciano Lama e Piero Boni, ho avuto solo poche occasioni di scambiare qualche parola. Con altri, come Bruno Trentin e Vittorio Foa, ho avuto rapporti più ravvicinati. Con altri ancora, come Pio Galli e Claudio Pontacolone, ho avuto invece il privilegio di lavorare.
Ho ricordato tutto questo perché è stato pensando a loro che ho seguito, con crescente sofferenza, il dibattito nato attorno all’interrogativo se l’Anpi – l’organizzazione che si fregia, a tutt’oggi, del nome glorioso di Associazione nazionale Partigiani d’Italia -, avesse fatto bene a giudicare negativamente l’invio di armamenti, da parte del Governo italiano, a sostegno della resistenza opposta dal Governo e dal popolo dell’Ucraina all’invasione militare scatenata contro di loro dalla Russia di Putin.
Personalmente, faccio presto a dirlo, condivido ciò che ha detto e fatto, e sta ancora facendo, il Governo italiano. Ma non è questo il punto.
Gli aspetti della discussione su cui mi interessa ragionare, in questo intervento, sono altri. Fra cui mi pare venga in primo piano quello che ruota attorno alla domanda: “Cosa direbbero oggi, sulla guerra lanciata da Putin contro l’Ucraina, quei giovani che, fra il 1943 e il 1945, imbracciarono le armi per combattere i nazisti veri e i loro servi repubblichini?”
A questa domanda mi sono dato una risposta articolata su tre punti.
Primo: i valori della Resistenza non appartengono solo agli ex-partigiani. Sono un lascito che appartiene a tutti quelli che decidono di trarre ispirazione da tali valori.
Secondo: l’Anpi è un’organizzazione composta ormai, in larga misura, da persone che, come me, sono nate dopo la fine della Resistenza. A fortiori, non ha quindi nessun particolare titolo per pretendere di avere il monopolio di tali valori.
Terzo: non è possibile offrire una risposta certa all’interrogativo sopra formulato.
A sostegno di questa affermazione vorrei portare alcuni argomenti. Secondo me, bisogna innanzitutto tenere conto del fatto che la Resistenza fu sì un fatto unitario, nel senso che l’obiettivo comune dei combattenti era quello di sconfiggere nazisti e fascisti e di riconquistare la libertà. Ma all’interno della Resistenza si muovevano essere umani dotati di idee anche significativamente diverse. Si andava infatti dai militari monarchici, come l’eroico colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, ai militanti di Bandiera rossa, che si collocavano a sinistra dei comunisti. Dopo la guerra, poi, i partiti antifascisti coprirono uno spettro molto ampio di opzioni politiche. E anche gli ex-partigiani, che ho citato sopra, hanno avuto certamente idee diverse sia in materia di politica estera, che di politica interna e di politica sindacale.
In secondo luogo, sempre secondo me, bisogna tenere presente che dalla Liberazione – ovvero dall’insurrezione nazionale proclamata dal ClnAI il 25 aprile del 1945 – a oggi, sono passati 77 anni. E che dal 1945 a oggi il mondo è cambiato totalmente almeno due o tre volte.
Concludendo questa prima parte del mio ragionamento, vorrei quindi dire che, a mio avviso, il primo errore dell’Anpi non consiste nell’aver assunto una posizione politica che a me appare sbagliata, ma nel fatto stesso di aver assunto, in quanto Anpi, una posizione su una questione politica di attualità. Su una questione, aggiungo, estremamente complessa, rispetto alla quale, grazie anche alla vittoria degli Alleati nella Seconda Guerra mondiale e al concorso che i partigiani diedero a tale vittoria, siamo oggi liberi di dire ciò che crediamo giusto. Ma se vogliamo esprimerci su tale argomento, dobbiamo farlo con i nostri nomi e i nostri cognomi di cittadini singoli, e non rifugiarci dietro la qualifica di partigiani. Una qualifica che va lasciata a chi, più di tre quarti di secolo fa, se la conquistò con le armi.
Ho detto: il primo errore. E l’ho detto perché il Presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ne ha commesso un secondo, a mio avviso molto più grave.
Prima di venire a questo secondo punto, premetto che nel sindacato, anzi, proprio nella Fiom, ho conosciuto anche Pagliarulo. Infatti, quando io lavoravo all’Ufficio stampa della Fiom nazionale, Gianfranco era responsabile dell’Ufficio stampa della Fiom di Milano. Siamo quindi, quanto meno, due ex-colleghi, e, sinceramente, non mi fa piacere polemizzare con lui. Ma mi vedo costretto a farlo, proprio ripensando a quei vecchi compagni che ho conosciuto in Cgil e alla Fiom.
Qual è, dunque, questo secondo errore? Mi riferisco a un pensiero formulato da Pagliarulo nel corso della conferenza stampa da lui tenuta il 15 aprile scorso per illustrare i programmi dell’Anpi per la ormai imminente ricorrenza del 25 Aprile.
A un certo punto di tale incontro, Pagliarulo si è trovato di fronte alla necessità di rispondere alle domande di un giornalista che gli chiedeva come mai l’Anpi, che si autodefinisce come associazione di partigiani e si propone di festeggiare, in quanto tale, l’anniversario della vittoria della Resistenza italiana contro l’occupazione della Germania nazista, sia oggi contraria all’invio di armi a sostegno di chi, in Ucraina, intende resistere all’occupazione della Russia di Putin.
Ebbene, a questo punto Pagliarulo si è avventurato in un’analisi storica volta a spiegare le differenze fra la Resistenza italiana al nazifascismo del ‘43-45 e l’attuale resistenza ucraina all’invasione russa. Nel settembre del ‘43, quando inizia la Resistenza italiana, dice Pagliarulo, la Seconda guerra mondiale era già in corso da alcuni anni. E questo, aggiungo io, è certamente vero. “Gli Alleati – afferma però incautamente l’appena rieletto Presidente dell’Anpi – sono in guerra contro la Germania e l’Italia fascista, per cui forniscono le armi alla Resistenza italiana al fine di chiudere al più presto la guerra, cacciando l’invasore nazista, e di conquistare la pace.” “E la Resistenza stessa – sottolinea Pagliarulo – si muove a tal fine.”
Ma non basta. Secondo lo stesso Pagliarulo, quella appena descritta “è l’ultima fase, diciamo così, di una guerra che il Patto d’Acciaio aveva sostanzialmente già perso”. Infatti, sempre secondo il Presidente dell’Anpi, “i tedeschi erano in ritirata”. “Questa”, chiosa infine Pagliarulo, “è una differenza abissale che spiega anche la ragione per cui noi siamo contrari all’invio delle armi.”
Ora mettiamo per un momento tra parentesi la questione della guerra di Putin contro l’Ucraina e soffermiamoci sull’interpretazione del significato storico della Resistenza che ci viene offerta dal vertice dell’Anpi. Non credo di sbagliare se dico che, in più di 70 anni di vita, non ho mai sentito una simile svalutazione della stessa Resistenza. Non l’ho mai sentita, voglio dire, neppure da parte degli aspiranti eredi della Repubblica sociale. I quali magari hanno accusato i partigiani di essere stati violenti e crudeli, ma non dei furbi opportunisti.
Invece, secondo il Pagliarulo pensiero, quando i primi partigiani italiani sono saliti in montagna, ovvero nell’autunno-inverno del ‘1943-44, e cioè quando Hitler occupava ancora mezza Europa, dalla Francia alla Polonia, dalla Danimarca all’Italia fino a Cassino, il Patto d’Acciaio – cioè, lo ricordiamo ai lettori più giovani, l’alleanza fra Hitler e Mussolini – aveva già perso.
Ecco, mi sono chiesto, se i dirigenti sindacali che ho elencato prima potessero rinascere, chi glielo spiegherebbe a Claudio Pontacolone – renitente alla leva della Repubblica sociale in quel di Savona, poi catturato dai repubblichini, condannato a morte, evaso – che quei nazifascisti che stavano per fucilarlo, “sostanzialmente”, avevano già perso?
E chi glielo spiegherebbe a Piero Boni, medaglia d’argento al valor militare, attivo nelle Brigate Matteotti e fra i protagonisti della liberazione di Parma, che non stava combattendo per la libertà ma per la pace?
E chi riuscirebbe, su questa base, a parlare con Luciano Lama, che partecipò con un ruolo dirigente alla liberazione di Forlì, del senso della morte del suo fratello minore, caduto in combattimento da partigiano?
E che dire di Bruno Trentin? Quando a 17 anni entrò in clandestinità a Milano, aderendo a una formazione di Giustizia e Libertà (nome di battaglia, Leone) cosa pensava di fare: di battersi per una generica pace? O che dire di Pio Galli, anch’egli salito in montagna, sopra Lecco, a 17 anni? Forse immaginava che, per vincere, fosse sufficiente fare qualche scaramuccia contro un nemico in ritirata?
Su Vittorio Foa, invece, non mi sono posto domande. In primo luogo perché lui, essendo più anziano degli altri sindacalisti citati, aveva fatto in tempo a farsi mettere in prigione dai fascisti già nel 1935, e quindi ben prima che iniziasse la resistenza armata. E poi perché, dovesse rinascere, non vorrei affrontare il suo sarcasmo di fronte a una domanda sbagliata.
Concludendo. Mi pare di poter dire che il mio ex-collega Pagliarulo ha fatto una confusione, spero non voluta, ma sicuramente inaccettabile, fra due concetti: libertà e pace. O meglio: fra lotta per la libertà e pacifismo.
I partigiani, come ci dicono anche le parole delle loro canzoni, volevano riconquistare la libertà. E visto che i loro oppressori non erano tipi ragionevoli, per riconquistarla hanno scelto di combattere “le armi alla mano”. E di combattere per vincere. Dopodiché, quando uno ha vinto e il suo nemico è stato sconfitto, ovviamente c’è la pace. Ma prima della pace è necessaria la vittoria. E infatti, scopo della Resistenza era sconfiggere i nazifascisti per riconquistare la libertà.
Invece, nelle parole di Pagliarulo i partigiani smettono quasi di essere dei combattenti, tanto “i tedeschi erano già in ritirata”, e diventano dei pacifisti ante litteram. E siccome l’attuale Anpi è erede dei partigiani, ed è dunque un’organizzazione pacifista, guarda alle armi con sospetto e pensa che non vadano inviate all’Ucraina. La quale, tra l’altro, è assai lontana dalla vittoria visto che lì, gli uomini di Putin, non hanno ancora cominciato a ritirarsi.
Non mi fa piacere dirlo, ma questo ragionamento mi pare grottesco. Comunque, Ucraina e Russia a parte, quello di cui mi sento ragionevolmente sicuro è di poter dire che i partigiani che ho conosciuto io non avrebbero accettato quella svalutazione del ruolo della Resistenza italiana che mi pare emerga dalle parole di Pagliarulo.
E ciò anche perché, prima che strettamente militare, il ruolo dei combattenti della Resistenza fu consapevolmente un ruolo politico. Fu cioè volto non solo a contribuire alla vittoria militare degli Alleati ma, come ebbe a dire Ferruccio Parri, a ottenere “il riscatto, di fronte al mondo e all’avvenire, dell’onore nazionale”. Si trattava, insomma, di contribuire alla vittoria militare degli Alleati per ottenere uno scopo politico: fare dell’Italia un paese libero. E questo obiettivo, nell’autunno-inverno 1943-44, appariva sicuramente a tutti come molto difficile da raggiungere. Molto difficile e molto rischioso. Ed è veramente strano dover riaffermare oggi questa elementare verità polemizzando col vertice dell’Anpi.
Comunque, W il 25 Aprile.
@Fernando_Liuzzi