Mi auguro che il solco aperto dalle lucide considerazioni di Roberto Ghiselli sul ruolo dei fondi pensioni, possano non solo essere raccolte, ma diventare, e rapidamente, anche una delle linee portanti della stessa prossima iniziativa generale del sindacato.
Sarebbe infatti un errore considerare le riflessioni di Ghiselli solo come un’opportunità specifica e settoriale, quasi uno strumento in più che potrebbe tornare utile per affrontare la crisi terribile che stiamo attraversando. Dico subito che considero sempre più insopportabile la retorica dell’ “andrà tutto bene” con il corollario che “dopo tutto cambierà per il meglio.”
Ovviamente me lo auguro, ma ne dubito fortemente. E’ molto più probabile che “dopo” avremo solo una società più povera, per questo più incattivita ed egoista, con disuguaglianze crescenti e quindi con interessi sempre più contrapposti e laceranti. Dove ci porterà tutta questa prevedibile prospettiva non so dire, se verso più o meno democrazia, se verso più o meno emarginazione, più o meno Stato in economia, più o meno giustizia sociale e così via. Temo però che proprio queste saranno le sfide da giocare e che quindi è ora che passa il tempo per coltivare non il piccolo cabotaggio quotidiano, ma di cercare di dotarsi di pensieri il più possibile, alti e lunghi.
Cosa c’entrano i fondi pensioni? Detta così, poco o niente, o meglio poco più di un utile strumento di garanzia e di protezione individuale, attraverso la gestione di una forma di risparmio collettivo.
Ma se provassimo ad alzare invece gli occhi ed a guardare in avanti, forse la prospettiva ci apparirebbe ben diversa.
Se si riuscisse cioè a guardare un po’ più in avanti, allora balzerebbe agli occhi che i fondi pensioni sono solo una parte dell’immenso capitale finanziario del lavoro e si scoprirebbe anche che questo capitale finanziario del lavoro rappresenta oggi un terzo della ricchezza complessiva del mondo intero. Il montante cioè dell’insieme delle risorse finanziarie che, a vario titolo, vanno al reddito del lavoro, è infatti esattamente un terzo del tutto. Anzi, ad essere più precisi, esso è equivalente, in volume quantitativo, all’insieme della ricchezza finanziaria delle imprese, mentre la restante parte riguarda direttamente la finanza in quanto tale, cioè il capitale mobiliare puro.
Qual è il problema? Il problema sta semplicemente in questo: sta che mentre la finanza mobiliare e quella d’impresa operano, fanno scelte e fanno investimenti decidendo e forgiando il futuro del mondo e della sua economia, quello del lavoro invece non gioca e appare del tutto disinteressato alla qualità e quantità delle scelte che vengono fatte. Fino al paradosso che quando queste scelte riguardano la massima redditività nel tempo più breve possibile, attraverso la ricerca del costo più basso del prodotto, quindi con la rottura e l’allungamento della catena del lavoro facendo dumping e precarizzazione, poi il danno più grande lo subisce proprio il lavoro.
Anzi, per essere ancora più precisi, proprio il capitale del lavoro partecipa sul mercato finanziario esattamente come fosse un rider contro se stesso, esattamente come i peggiori fondi speculativi. Potrei citare, ma sono sotto gli occhi di tutti, come ad esempio i fondi pensioni americani abbiano giocato sporco durante gli anni recenti della crisi economica appena attraversata, provocando chiusure di fabbriche e conseguente disoccupazione e sofferenza sociale.
Allora il tema che si pone oggi è: ma è proprio fatale che le cose vadano così? Cioè che i lavoratori e il loro immenso capitale, sotto forma di salari, di fondi pensioni e di risparmio contrattuale, operino sia quando sono consumatori, sia quando sono investitori esattamente come lo fanno i pescecani che solcano i mari del mondo, provocando danni e distruzione del valore?
Su questo tema di respiro mondiale, perché non ricordare che il sindacalismo italiano ha avuto i propri quarti di nobiltà e felici intuizioni. Penso all’intuizione di Giorgio Benvenuto sul ruolo e la funzione dei lavoratori in quanto anche cittadini e consumatori e per questo in grado di poter contribuire ad orientare la domanda e la qualità dei beni di consumo e conseguentemente l’offerta; penso al contributo insistente della Cisl nel corso degli anni sulla figura del lavoratore azionista come una via per cercare di influire sulle relazioni industriali e quindi sulle strategie delle imprese; penso al pensiero e all’elaborazione di Bruno Trentin che proprio nel modello collettivo del risparmio del lavoro e del loro utilizzo, individuava un varco per innovare e sperimentare anche nuove forme di organizzazione del lavoro, prendendo come esempio concreto, il balzo di produttività del modello Saturn della GM, negli anni novanta, realizzato proprio attraverso il lavoro a gruppi e non parcellizzato, come il frutto di “un patto tra produttori”, in cui il sindacato americano ci aveva messo come investimento materiale proprio il fondo pensione dei propri lavoratori. Ed anche la Ces, il sindacato europeo, aveva riunito, presso la London Economics of School, le migliori intelligenze accademiche europee, guidate da Brian Bercusson giungendo, anche con un personale contributo, ad una Conferenza europea, a Vienna, nei cui documenti sono ancora freschi e ravvisabili tutti quei temi che si configurano oggi del tutto urgenti.
D’altronde nel mondo vi sono già molti esempi di finanza del lavoro che ha operato e opera influenzando in modo virtuoso i comportamenti delle imprese.
Penso all’attività e alle scelte dei fondi pensioni canadesi, svedesi e svizzeri che operano esclusivamente investendo in quelle imprese che operano nel campo dello sviluppo sostenibile, delle energie pulite, della protezione dell’ambiente, della ricerca e della formazione permanente del capitale umano, privilegiando e sostenendo solo le imprese socialmente responsabili aventi piani industriali che puntano alla redditività di medio-lungo periodo e non di breve. E penso alla grande esperienza dei fondi di risparmio contrattuale, oltre che dei fondi pensioni francesi promossi dalle parti sociali e sostenuti da una legge dello Stato, la legge Fillon, che arriva addirittura a proteggere finanziariamente quei fondi che investono nelle scelte prima ricordate, compensando annualmente la differenza tra i rendimenti realizzatasi tra i fondi a breve e quelli del cosiddetto capitalismo paziente.
Perché tutto questo ritorna di estrema attualità oggi? Semplicemente perché davanti a noi c’è la sfida della ricostruzione della nostra economia e di quella del mondo. E non sono affatto sicuro che se il lavoro continuasse ad astenersi, le scelte che verranno fatte andranno poi davvero nella giusta direzione. Domani è certo che servirà più welfare e più ambiente, più sviluppo sostenibile e più economia circolare. Più cura per le persone e per la qualità dei beni prodotti con meno economia pesante e dissipatrice di risorse.
E tornerà per questo anche un ruolo diverso dello Stato. Il mercato infatti, lasciato a se stesso, non garantirebbe né queste scelte né i loro tempi. Anche perché, come anche in questi frangenti possiamo nitidamente vedere, il mercato continua ad essere pieno di negazionisti anche di una terribile pandemia e di fautori del “business as usual”.
Quindi allora lo Stato, ma lo Stato, come nel nostro caso, non può solo operare “a debito”, perché altrimenti il servizio al debito si rimangerebbe la più parte delle risorse proprio a danno degli investimenti di cui avremmo bisogno. Peraltro questa contraddizione sta avvenendo, già qui e ora, sotto i nostri occhi.
Da questo punto di vista trovo del tutto insensato l’atteggiamento del nostro Governo sul terreno delle risorse europee, messe a disposizione, per uscire dalla crisi.
Perché ovviamente non ho nessun dubbio a sostenere la scelta degli eurobond o coronavirus bond o recovery bond che si vogliano chiamare, sapendo però che la loro emissione e la conseguente raccolta sui mercati, ad essere ottimisti, avrebbe lo stesso tempo che ha l’auspicato vaccino contro il Covid-19, ovvero i primi mesi del prossimo anno. Allora perché, nel frattempo, non utilizzare tutto quello che viene offerto compreso il Mes, proprio quando questi fondi vengono finalizzati alla sanità pubblica, senza interessi e senza alcuna condizione? Anche perché gli altri due strumenti, Sure, cioè la cassa integrazione europea e la Bei son vincolati a tutt’altro utilizzo. Il Sure, senza alcun dubbio prezioso, riguarda il mercato del lavoro e quindi gli attivi e la Bei opera per statuto solo per finanziare progetti riguardanti l’economia reale e le infrastrutture pesanti. Sure e Bei cioè non si occupano di welfare sanitario.
Così stando le cose, proprio nel momento in cui va affrontata di petto la più tragica delle condizioni che sta attraversando la parte più fragile delle nostre società, incredibilmente, il nostro Governo rifiuterebbe le uniche risorse (200) miliardi che l’Europa ci mette a disposizione. Alla faccia delle tante chiacchiere sullo sfascio e sui danni provocati dai tagli alla sanità pubblica e sulla carenza drammatica di risorse, strumenti e personale spaventosamente sotto i nostri occhi.
E davvero si pensa che rimettere al centro la salute pubblica e la ricostruzione dell’intero sistema sanitario, la si possa fare a debito sul bilancio dello Stato? E, mi chiedo, si può, per un occhiuto e miope calcolo di equilibri politici interni, rifiutare un piano Marshall per la Sanità che l’Europa ora mette a disposizione che per il nostro Paese corrisponderebbe ad oltre due punti di pil, ovvero a quasi 36 miliardi?
Anche per tutto questo torna utile la radice delle riflessioni che ci propone Roberto Ghiselli. Perché per il mondo e per l’Italia che dovremo ricostruire non sarà sufficiente, almeno questa volta, chiedere che siano sempre e solo gli altri a farlo.
Se davvero siamo nelle medesime condizioni del dopoguerra, non va dimenticato che allora, come sindacato non chiedemmo che della ricostruzione se ne occupassero gli altri. Non solo non lo facemmo, ma fummo anche pronti a mettere in campo e responsabilmente tutto quello che avevamo. Intelligenza e idee, le braccia dei contadini e tutta la sapienza operaia.
Oggi il lavoro, se volesse, è però in condizione di mettere in campo di più. Potrebbe e dovrebbe mettere in campo anche quello, poco o molto che sia, che il risparmio collettivo dei lavoratori ha realizzato in questi anni. Metterlo per contribuire a costruire un’economia diversa, più etica e più responsabile. Essere per questo un attore attivo e non semplice spettatore, contribuendo così a forgiare le scelte del mondo che verrà. Gli esempi e le esperienze ci sono, le condizioni concrete non sono state mai come adesso e, basta guardarsi attorno, sono pronte anche le alleanze possibili sullo stesso versante bancario e assicurativo.
E al governo del presidente Conte bisognerebbe con urgenza ricordare e anche con forza rivendicare che quei soldi per la sanità pubblica ci servono, così come ci serve una legge come quella fatta da Fillon sul risparmio investito del lavoro, per orientarlo, per proteggerlo e per sostenerlo. E, se per caso non la conoscesse, che saremmo anche pronti a fornirgli il file.
Walter Cerfeda