Giorgia Meloni si prepara all’equivalente politico del triplo salto mortale. La settimana prossima sarà negli Usa a lucidare i buoni rapporti con il lìder maximo del gigante americano. E la settimana dopo potrebbe trovarsi ad essere il voto determinante per decidere se usare o meno il “bazooka commerciale” europeo contro l’ossessione protezionista dello stesso lìder maximo.
La Meloni ha già dimostrato di saper navigare con il massimo profitto una situazione italiana che la vede confrontarsi con una opposizione divisa e impacciata, avendo alle spalle alleati deboli e altrettanto divisi che possono al massimo infastidirla, mentre in Europa riusciva, grazie anche al peso dell’Italia, a mantenere quei buoni rapporti essenziali per assicurare al paese l’ombrello europeo. “Ma adesso – dicono i diplomatici a Bruxelles – deve decidere da che parte stare”.
In linea di principio, non è il capitolo americano la parte difficile. Meloni potrebbe ottenere da Trump l’esenzione, non dell’Italia dalle sanzioni (tecnicamente complicata perché le dogane sono una competenza di Bruxelles), ma di prodotti significativi italiani (parmigiano, Chianti, Ferrari). La premier potrebbe rivendicare di avere difeso gli interessi del paese e Trump di avere costretto almeno un paese non marginale ad accettare le sue condizioni e la sua visione dell’economia mondiale. Una vittoria, sia pure più formale che sostanziale, per entrambi. Ma, poi, per Giorgia Meloni, si aprirebbe il capitolo europeo.
Trump ha trasformato la questione commerciale in un mantra ideologico e propagandistico. Sia per ambizione personale, sia per dare corpo agli slogan sul ritorno dell’industria manifatturiera, non accetterà l’offerta di Ursula von der Leyen per tariffe zero da una parte e dall’altra, che è la risposta più corretta e che sposterebbe poco (le tariffe vere e non inventate da Trump, in media, alla dogana americana e a quella europea, sono nell’ordine del 2-3 per cento). L’Europa, dunque, si troverà di fronte alla scelta se mettere in campo o no l’Anti-Coercion Instrument, ovvero il bazooka allestito nel 2023, proprio in vista di guerre commerciali, anche se, allora, si pensava alla Cina. Si tratta non solo di dazi, sanzioni e quote sulle importazioni, ma di esclusione dagli appalti, di ostacoli agli investimenti, a banche e assicurazioni e, in particolare, di limitazioni al trattamento e alla protezione di brevetti e software. Si chiama bazooka, proprio perché la sua indeterminatezza moltiplica le opzioni possibili, anche se quasi tutti pensano che sarebbe, soprattutto, una tassa sui giganti del web. E si concentra sui servizi, più che sulle merci, perché è sui servizi (dove gli Usa sono in attivo rispetto all’Europa) che si può fare più male agli americani.
A chiedere di porre mano al bazooka, in questi incontri preparatori a Bruxelles, sono Francia, Germania, Spagna e Belgio. A nicchiare sono paesi piccoli: Romania, Grecia e Ungheria. Il punto è che, per varare il bazooka occorre una maggioranza qualificata dei 27 paesi dell’Unione e della popolazione che rappresentano. E, se l’Italia si schiera contro il bazooka, la maggioranza qualificata non c’è.
Questa è la strettoia. Bloccare il bazooka farebbe di Giorgia Meloni l’alfiere di Trump in Europa (con tanti saluti a Salvini) e l’interlocutore privilegiato, da questa parte dell’Atlantico, nell’opera di ridisegno dell’economia mondiale, cui pensano a Washington. Ma vorrebbe dire mettersi contro i poteri forti d’Europa: dal vertice di Bruxelles alle grandi capitali. Fragile sui mercati finanziari e azzoppata da debito e deficit pubblici, l’Italia (che all’Europa è riuscita a strappare, ai tempi di Draghi, la quota più ricca del bazooka anti-Covid) ha bisogno dell’ombrello protettivo di Bruxelles e della Bce a Francoforte. E difficilmente non ce la farebbero pagare: Macron a Parigi è debole, ma Merz a Berlino no.
La linea del no alle ritorsioni, in realtà, non è solo frutto di convenienza politica. Ci sono economisti insospettabili di simpatie a destra, convinti che le tariffe siano, per Trump, molto più che uno strumento per negoziare e che non farà marce indietro. A fermarlo sarà, piuttosto, la rivolta di aziende ed elettori americani. I controdazi potrebbero, invece, fornire alla Casa Bianca il pretesto per accusare gli altri, europei in testa, per l’inflazione e la recessione, piuttosto che le tariffe di Trump. Ma la posta in gioco non è solo economica. Accettare le sue tariffe punitive, dicendosi fra sé che si sta sparando da solo sui piedi, significa anche accettare la logica di un mondo in cui vale solo la legge del più forte e non le regole condivise dei mercati liberi.<
Maurizio Ricci