Il tribunale di Genova, con la sentenza 21 ottobre 2009 n. 1531, si è pronunciato su alcuni nodi critici concernenti l’efficacia soggettiva e oggettiva dei contratti collettivi, definendo, da un lato, la natura degli accordi stipulati tra il datore di lavoro e il lavoratore aventi a oggetto modifiche del contratto collettivo e stabilendo, dall’altro, il potere del datore di lavoro di recedere unilateralmente da un contratto collettivo nazionale, applicandone uno diverso.
Sotto il primo profilo, gli accordi stipulati alla presenza dei rappresentati sindacali i quali, però, non svolgano effettiva attività di assistenza devono essere considerati come accordi plurimi contenenti tanti distinti contratti individuali conclusi dalla società datrice di lavoro con ognuno dei suoi dipendenti. In armonia con una consolidata giurisprudenza, il tribunale ritiene che qualora tali contratti mutino le condizioni precedentemente in atto, prevedendo regolamentazioni future differenti, non possa ritenersi applicabile il disposto dell’art. 2113 c.c., il quale si limita a stabilire l’annullabilità delle rinunce e transazioni del lavoratore solo quando esse abbiano a oggetto diritti già acquisiti al patrimonio del lavoratore (cd. diritti quesiti), quindi, non anche situazioni future (fra le tante, Cass. 5 agosto 2000 n. 10349, Cass. 8 novembre 2001 n. 13834, Cass. 26 maggio 2006 n. 12561).
Sotto altro profilo, il tribunale ha stabilito che la modifica del rapporto di lavoro può avvenire anche in assenza delle rappresentanze sindacali, senza che ciò comporti una violazione dei diritti del lavoratore, purché, tale variazione non comporti un mutamento peggiorativo delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo e, quindi, l’applicazione di un trattamento complessivo deteriore. Tale valutazione va effettuata considerando non solo la retribuzione tabellare, ma l’insieme delle disposizioni economiche e normative dei due contratti (cfr. Cass. 11 agosto 2004 n. 15605, Cass. 1 settembre 2003 n. 12760, Cass. 20 agosto 2003 n. 12263).
Ciò posto, sarebbe consentito al datore di lavoro di recedere unilateralmente dall’applicazione del Ccnl in corso, quando egli intenda doversi applicare un contratto collettivo di altra categoria, più vicina alla propria, stante la costante e prolungata osservanza delle relative clausole contrattuali. In effetti, il contratto collettivo si configura come una fattispecie di diritto comune e, pertanto, qualora non sia previsto un limite temporale alla sua efficacia, è concesso alle parti di recedere anche unilateralmente ante tempus. Il recesso esercitato dal datore di lavoro sarebbe ammissibile purché sia sempre rispettato il principio dell’irriducibilità della retribuzione: nel caso di specie, detto principio non sarebbe stato violato nella misura in cui il datore di lavoro aveva attribuito ai propri dipendenti un assegno ad personam, d’importo pari alla differenza tra trattamento spettante in forza del nuovo Ccnl e quanto previsto in base al vecchio contratto, prevedendo, peraltro, che le somme a tale titolo erogate venissero assorbite dagli eventuali e futuri aumenti della retribuzione tabellare stabilite nei successivi rinnovi contrattuali.