L’annunciato tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici sopravviverà agli emendamenti? Non ne sarei così sicuro, anche perché pone più di un problema pratico. Non è certo possibile ridurre lo stipendio di base, quindi si applicherebbe solo alle indennità di carica e ai compensi aggiuntivi, anch’essi spesso definiti da norme. O sarebbe valido solo per i nuovi dirigenti, dal 2025 in poi? E che senso avrebbe ridurre i compensi più elevati lasciando indenni quelli intermedi? Per non dire dell’applicazione al di fuori dell’ambito della Pubblica Amministrazione in senso stretto: il criterio di applicazione agli enti e alle società che percepiscono contributi pubblici è quanto mai esteso e indefinito: si applica anche a chi gode di vantaggi fiscali o solo a chi li contabilizza tra i ricavi? E se vi fosse discontinuità negli anni? Molti soggetti a cui potenzialmente si applica la norma sono assunti con contratti di settori privati, come si potrebbe incidere su di essi? Chi prospera con i contenziosi si appresta ad aprire una nuova linea di ricavo.
Ma se anche la norma scomparisse, nelle giornate concitate della discussione sulla Legge di bilancio in Parlamento – o meglio tra partiti, ministri e uffici del governo, posto che ormai gli emendamenti arrivano al voto solo se “blindati” – ne rimarrebbero lo spirito e i messaggi.
Il primo messaggio, il più incoerente con gli altri annunci, è che il presunto rilancio delle pubbliche amministrazioni non è altro che quello del “postificio”, a dispetto della necessità di competenze e di talenti. Già non è facile cancellare l’immagine di un tipo di lavoro poco pagato, di scarsa qualità e tecnologicamente arretrato – non sempre corrispondente al vero, peraltro – ma diventa impossibile se la prospettiva è quella di un tetto, che in Italia nel privato i più brillanti possono raggiungere in 7-10 anni di lavoro, e molto prima in altri paesi europei.
Il secondo messaggio è purtroppo la conferma che, nonostante i buoni propositi del Pnrr, i criteri di organizzazione contemporanei non riescono a essere applicati nel settore pubblico. La valutazione delle posizioni organizzative non è certo un metodo nuovo, né infallibile, specialmente nelle aziende dinamiche e alla ricerca di talenti, ma nella PA potrebbe rappresentare una base di riferimento molto più affidabile che in altri ambiti. Un altro strumento, mai davvero utilizzato ma che dispone di un impianto articolato e consolidato, è quello delle valutazioni dei dirigenti, il cui risultato è purtroppo quasi sempre appiattito verso l’alto e soprattutto poco correlato a una retribuzione variabile (anche per responsabilità di alcuni sindacati).
Un ampio e serio lavoro di mappatura delle organizzazioni pubbliche potrebbe rimodulare i compensi secondo le reali esigenze, che nel tempo si modificano e riducono anche i requisiti per alcune posizioni, e valorizzando chi realmente ha competenze e capacità. Certo, occorrerebbe poi mettere mano ai meccanismi di assunzione e a quella caricatura di “spoil system” che è causa, non ultima, di debolezza dei vertici delle PA.
Ma il messaggio di fondo, il più grave, è che la politica, purtroppo di quasi ogni colore, combatte l’idea di una pubblica amministrazione indipendente, e anzi persegue un disegno di accentramento sulla funzione del presidente del Consiglio e del governo.
La battaglia per eliminare il tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici non troverà molti alleati, neppure tra i colleghi privati, purtroppo. Per molti il dirigente pubblico è un raccomandato o un fannullone, che per la stabilità del posto di lavoro dovrebbe accettare il taglio delle prospettive economiche. Tanti grideranno scandalizzati che non ci si può lamentare di 160.000 € l’anno, mentre la gente non arriva a fine mese. Come se le due cose avessero una qualche correlazione o se il tetto potesse dare un contributo alla soluzione del problema della povertà.
Ma è una battaglia da fare, in nome della qualità del lavoro, della sua valorizzazione e dell’indipendenza delle istituzioni, principi che stanno alla base di una società realmente libera.
Mario Mantovani