Ieri si è tenuta on line una interessante discussione, organizzata dal Diario del Lavoro e dalla sua Scuola di Relazioni Industriali. Il tema era: è necessario un nuovo Patto per lo sviluppo del Paese? I rappresentanti del lavoro e delle imprese sono interessati e in grado di farlo?
Si sono misurate fra loro due tesi diverse, seppure non completamente alternative. Una, dal versante imprenditoriale, che ritiene utili solo gli accordi che poi vengono rispettati e applicati. L’idea che di accordi importanti fra le parti ce ne sono stati almeno due e sono stati dimenticati ben prima della pandemia e che questa ha solo accelerato le modificazioni già in corso: del lavoro, del welfare, della finanza, delle imprese, ecc. La convinzione, in fondo (la sintesi è mia), che è meglio occuparsi nel confronto sindacale della gestione dell’emergenza e delle singole crisi che non sperare in un “palingenetico” accordo sottoscritto anche dal Governo che poi lascia il tempo che trova.
L’altra tesi, dal versante sindacale, sostiene che è necessario uno sforzo programmatico condiviso da Governo, e dai rappresentanti delle imprese e del lavoro se si vuole andare con lo sguardo oltre l’orizzonte dell’emergenza. E che il tempo per farlo è adesso, senza aspettare che “passi la nottata”.
Approfondisco brevemente la seconda tesi che è quella che condivido.
- Oggi si legge sul giornale che il Governo (Ministra Lamorgese) teme in autunno il determinarsi di “tensioni sociali”. Ma la crisi sociale c’è da un pezzo, con la crescita delle diseguaglianze (di reddito, di qualità dei servizi, di condizioni di vita, di età, di genere) acuita, non prodotta dalla pandemia. Accanto alla crisi sociale ci sono quella economica con il crollo del Pil (ancor di più del Bes) e del lavoro e quella ambientale (ce la siamo già dimenticata?). Oltre al disastro di un sistema di Welfare sanitario (troppo privatizzato, centrato sugli ospedali e le case di riposo) che non è in grado di garantire i Lea da ben prima dell’esplosione dei contagi del Covid. Malgrado la legge lo preveda.
- Da tempo, il mondo del lavoro e delle imprese è attraversato da profondi processi di innovazione (tecnologica, finanziaria, produttiva, di servizio) che rimettono in discussione mercati e competitività nazionali e internazionali delle imprese e del lavoro. Senza dimenticare una stagnazione della domanda interna (consumi e investimenti) e della produttività ormai trentennali.
- Dopo la pandemia, invece, l’Unione Europea ha cambiato le sue politiche e ha deciso di finanziare i paesi colpiti chiedendo progetti e riforme coerenti in cambio di risorse molto consistenti (non disponibili a prescindere). Mentre noi continuiamo (come anche Bruxelles teme) a pensare di spargere in giro le risorse ottenute come fossero sementi che prima o poi cresceranno da sole.
- Le alternative allora sono solo 2: o si insiste a chiedere e gestire agevolazioni finanziarie (decontribuzioni, facilitazioni, incentivi, ammortizzatri vari) più o meno a pioggia per le imprese (sane o non sane che siano), oppure si cerca di indirizzare quelle risorse su progetti condivisi per la crescita di nuove imprese e nuovo lavoro in un ottica di sviluppo sostenibile.
- Non si vuol dire qui che non si debbano difendere le imprese in crisi e i posti di lavoro in bilico con ogni strumento possibile, rimescolando opportunità, competenze, orari, tempi, modalità di partecipazione, senza paura di sperimentare soluzioni nuove e difficili. Ma il tamponamento delle crisi non sarà sufficiente per recuperare il Pil e l’occupazione perduti e nemmeno ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche.
- Il laissez nous faire degli imprenditori, ammesso che abbia mai funzionato dal 700 a oggi, non sarà in grado di tamponare la più grave crisi dal dopoguerra senza un New Deal (Social o Green che sia) che sostenga nuovi consumi e nuovi investimenti, quindi nuovi mercati, nuove imprese e nuovo lavoro anche con indirizzi e risorse pubbliche. Da qui un reddito aggiuntivo da redistribuire con nuovi strumenti fiscali.
- Questo vuoto strategico e programmatico lo colmano le parti sociali fra loro, caso per caso, in forma autarchica? Difficile da credere. Lo colma la politica attraverso un “normale” confronto tra potere esecutivo e legislativo? Anche questo: beato chi ci crede. Lo si riempie con quella specie di show room degli “Stati generali”? Via, cerchiamo di essere seri… un Paese in difficoltà (economica, sociale, culturale, politica, psicologica, comportamentale…) non ha certo bisogno del Circo Barnum.
- Temo che non ci sia alternativa a un nuovo percorso di condivisione a 3: Governo e parti sociali ed economiche. Anche a rafforzare le richieste all’UE. Poi chiamiamola come vogliamo: la parola più piena di significato è ancora “concertazione”, secondo me. Ma non mi formalizzo.
- L’unico dubbio che mi resta (sui punti precedenti sono purtroppo convinto da parecchio tempo) è il seguente: è possibile (ancora possibile) realizzare un percorso di convergenza strategico-programmatica a livello nazionale, qualora le parti fossero disponibili? Forse no. Forse è meglio che ci si provi a partire dal territorio con un percorso bottom up. In una battuta: la miopia nazionale non fa vedere l’orizzonte oltre la punta del proprio naso, la visione locale può essere certamente più artigianale ma anche più fattiva. A proposito di distanza tra il “pensare” e il “fare”.
- Infine. Le parti sindacali sono in grado di promuovere una nuova concertazione (nazionale o decentrata che sia)? Ne hanno la forza e la capacità? La mia risposta è decisamente sì, se lo volessero davvero e unitariamente. Speriamo che accada: il tempo per avviare un nuovo modello di lavoro e di sviluppo non è infinito.
Gaetano Sateriale