Il tempo. Parmenide lo definiva “un’illusione”. Zenone un assurdo. Platone diceva che “è un’immagine mobile dell’eternità”. Aristotele una categoria numerabile tra un prima e un dopo. Agostino lo considerava “un’estensione dell’anima”. Dante, all’Inferno, vedeva “un’aura” che ne era priva”. In Cartesio e Spinoza, risulta un modo di pensare la durata di un fenomeno. Locke e Leibniz gli attribuiscono un significato più che altro psicologico, connesso alle nostre esperienze. Con Galileo e Newton diviene parametro misurabile del movimento.
Foscolo lo immagina come “l’uomo e le sue tombe”. Per Leopardi se ne potrà discorrere “quando sarà venuta l’usanza che non si muoia mai”. Kant lo inserisce nella Ragione Pura, un dato a priori. Secondo Bergson non ha nulla di scientifico ma costituisce concreta esperienza interiore, slancio vitale. Heidegger ne fa l’attimo dell’angoscia vissuta. Wells descrive una macchina per i viaggi nel passato. Einstein lo pone in relazione allo spazio. Proust lo perdeva e lo ricercava.
Ford e Taylor lo hanno segmentato per rendere più scientifica la catena di montaggio. Il tempo, nell’era del capitalismo, ha perso ogni connotato mitico, letterario, filosofico, diventando parametro economico. Le lancette dell’orologio, anzi, lo schermo del telefonino, scandiscono produzione e consumo. Fino all’algoritmo che giudica la velocità di consegna di un fattorino. Clap, clap, clap. Un’altra pedalata, più veloce, più veloce, altrimenti la pizza si raffredda. Come i rematori nelle galere. Ancora, ancora, ancora. Cronos ha generato una gabbia nella quale ogni persona si agita, simile ad un criceto che corre sulla ruota ma è sempre lì.
E allora il tempo esplode in mille frammenti. Va ricomposto, in quanto “tema di libertà”. Lo sosteneva, con accenti trentiniani, Bruno Ugolini, grande e compianto giornalista. Nel 1995 scrisse un libro il cui primo capitolo paventava un ritorno al Medioevo. Era intitolato “I tempi del lavoro” e metteva a confronto le esperienze di vari Paesi industrializzati. Giappone, Stati Uniti, Germania, Svezia, Francia, Spagna. E Italia, naturalmente. Un viaggio tra leggi, contratti, esperimenti, per concludere con l’invito a spendere bene la nostra vita, “senza catene”.
Riduzione dell’orario, settimana più corta, part time, solidarietà. Temi che sembravano schiacciati e sepolti dal mostro sfruttamento. Ma la pandemia ha sconvolto tutti i ritmi dell’esistenza, squarciando il velo dell’alienazione. Ed ecco che i tempi e i modi di produzione sono tornati al centro del confronto, non più come valore in sé ma in quanto porzione dell’umana esistenza. Il faccia a faccia quotidiano con la malattia e la morte ha evocato un ripensamento complessivo dell’organizzazione sociale. E anche lo smart working, da obbligo causa contagio, è diventato richiesta sindacale.
Massimo Mascini, nella newsletter del Diario, ha illustrato la proposta di Intesa San Paolo, che lui stesso definisce una rivoluzione: “Lavorare non più sette ore e mezza tutti i giorni della settimana, dal lunedì al venerdì, ma nove ore, però solo per quattro giorni, lasciando ai lavoratori la scelta di decidere quando restare a casa”.
Volontarietà, partecipazione, nuovi parametri di efficienza. C’è un intero campo da arare. Ridefinire i confini tra il collettivo e il privato, tra le esigenze e i desideri, tra il sé e gli altri, rappresenta una grande sfida per le aziende e le confederazioni. E dovrebbe investire anche la politica, nel senso più alto e più vasto possibile. Tutti sono chiamati ad un grande sforzo di creatività. Persino l’emergenza del caro bollette può essere terreno di confronto. E poi l’ambiente, il traffico, la salute, l’urbanistica, la scuola, l’architettura. C’è un nuovo mondo da progettare e da costruire. Non si può tornare indietro.
Pierre Carniti, alfiere del “lavorare meno, lavorare tutti”, era ben consapevole di quante implicazione contenesse questo slogan. E di come fosse un grimaldello per scardinare l’opprimente assetto costituito. Ammoniva, già nel 1977: “Siamo chiamati a raccogliere, con consapevolezza democratica, tutte le tensioni, i problemi della povera gente, degli emarginati, dei disoccupati, delle donne e dei giovani, ad esprimere piena dedizione, in sostanza, alla causa della liberazione dell’uomo e della sua presenza in una società che sia costruita a sua misura. Se si smarrisce il senso dell’ideale ci si immiserisce nella pratica quotidiana”.
“Perdere tempo, a chi più sa, più spiace”. Ancora Dante.
Marco Cianca