Un’universalità sostenibile. È questa la grande sfida, e l’ambizioso compito, che il SSN, nel prossimo futuro, è chiamato ad affrontare. Su questo tema si è incentrata l’edizione 2017 del Welfare Day (a Roma, il 7 giugno) nel corso del quale è stato presentato il VII Rapporto RBM Assicurazione Salute – Censis sulla Sanità Pubblica, Privata e Integrativa, cui hanno partecipato rappresentanti delle istituzioni e delle parti sociali, esponenti del mondo accademico e professionisti del settore.
Il nostro sistema sanitario pubblico si trova, infatti, a dover fronteggiare una congiuntura, economica e sociale, mai vista prima. Da una parte c’è la necessità di contenere i costi, con una crescita ancora modesta, incapace di generare quella ricchezza necessaria per alimentare una macchina così complessa, come quella della sanità. Dall’altra i profondi cambiamenti sociali impongono un ripensamento profondo dell’intera struttura. L’invecchiamento della popolazione, il problema delle malattie croniche diffuse, non solo tra le fasce più anziane della popolazione, ma anche tra i giovani adulti, richiedono percorsi di cura e assistenza sempre più lunghi e complessi. In che modo dunque il SSN può far fronte a queste prospettive? E soprattutto, in che modo la sanità privata e integrativa possono creare un incastro virtuoso e fruttuoso con quella pubblica?
Naturalmente quando parliamo di sanità e di sistema sanitario non facciamo riferimento ad un mondo omogeneo, a un blocco monolitico che si declina, in modo uguale, in tutte le zone del paese. Più che di “sistema sanitario nazionale” sarebbe necessario parlare di “sistemi sanitari regionali”. Il Censis ci restituisce infatti un’immagine molto frammentata e diversificata. Le profonde discrepanze tra Nord e Sud del paese, non solo si riflettono nella diversa percezione dei cittadini del sistema di cure che hanno a disposizione, o negli indicatori strutturali e di efficienza, ma sono foriere di problematiche e disagi sociali che colpiscono in modo più doloroso le regioni meno performanti.
Nel Mezzogiorno e nelle Isole più della metà dei cittadini (52,7%) si dichiara insoddisfatto della sanità della propria regione, a fronte di un giudizio positivo che nel Nord-Ovest raggiunge il 76,4%, e nel Nord-Est quasi l’81%. Questa dicotomia si amplia maggiormente se la poniamo all’interno di un’ottica comparata al livello europeo. Analizzando la qualità e il finanziamento dei sistemi sanitari, in una scala da 3 a 9, l’ultima posizione è occupata dalla Campania, che registra una performance peggiore anche della Grecia, mentre le province di Trento e Bolzano sorpassano persino le eccellenze del sistema sistema svedese.
Il primo passo è quello di dar vita ad una governance che tenga insieme queste realtà così profondamente diverse, capace di far dialogare, in modo proficuo, i diversi pilastri della sanità: pubblico, privato e integrativo. L’universalismo del sistema sanitario ha infatti mostrato, in questo ultimo decennio, segnali preoccupanti di cedimento, e rischia di diventare un vuoto simulacro e non più qualcosa di reale. Secondo le stime del Censis, i cittadini, che non sono stati coperti o per così dire “espulsi” dal SSN, sono passati dai 4,6 milioni del 2006 (7,8%), ai 13,5 milioni del 2016 (22,3%). Numeri che testimoniano come ci sia stata una perdita di quella dimensione universalità che aveva animato il SSN fin dalla sua nascita.
In risposta a questa situazione o ci si rifugia nella spesa privata o nella sanità integrativa. Nel 2016 i soldi out of pocket che gli italiani hanno destinato alle proprie cure hanno raggiunto i 35,2 miliardi di euro, con una crescita del 4,2% nel triennio 2013-16. Sono due gli aspetti che meritano di essere analizzati. Il primo riguarda il fatto che ormai la spesa privata non è più un’eccezione, ma un fenomeno che rientra nella normalità. L’altro è che destinare i propri denari per la sanità non e’ affare esclusivo dei ceti più abbienti, ma si e’ diffuso trasversalmente in tutte le fasce della popolazione, andando ad incidere, in maniera negativa, proprio sui redditi meno ricchi.
Sorge in questo modo un serio problema di equità sociale, dal momento che il retrenchment della sanità pubblica impone ai cittadini di far fronte, con le proprie forze, ai bisogni socio-sanitari, con ripercussioni sugli strati più deboli della società. Ben 8 milioni di italiani hanno usato tutti i loro risparmi o si sono indebitati per fronteggiare le spese mediche, e quasi 2 milioni sono entrati nell’area della povertà. Dunque come si può intervenire affinché le persone non siano costrette a spendere di tasca propria, sopratutto chi si trova in una situazione economica più disagiata, senza tuttavia scaricare tutto sul SSN? La risposta potrebbe giungere dalla sanità integrativa.
Questa rappresenta un paracadute per circa il 20% degli italiani, che vi possono accedere o perché è prevista dal proprio contratto di categoria, o da accordi di secondo livello, stipulati al livello territoriale o aziendale, o perché si e’ sottoscritta una polizza assicurativa. Stiamo parlando dunque di un confine molto ristretto, in relazione anche ad altri paese europei, come Francia e Germania, dove tocchiamo percentuali molto più alte, rispettivamente del 97,5% e del 33%.
Ma soprattutto, come dobbiamo coniugare pubblico e integrativo, affinché quest’ultimo rappresenti una vera “seconda gamba” di sostegno, e non un qualcosa che duplichi o esautori il primo pilastro della sanità? Prima di tutto integrativo non vuol dire sostitutivo, e perche’ questo si verifichi occorre sia un impianto normativo sia un’analisi dei diversi soggetti che operano nella sanità, in modo da disciplinare adeguatamente e indicare con precisione i confini tra pubblico ed integrativo.
Altro nodo cruciale è come poter allargare la platea dei beneficiari.La sanità integrativa resta, per ora, una prerogativa di alcune tipologie di lavoratori, occupati in specifici settori produttivi e che si trovano nelle aree economicamente più ricche ed avanzate del paese. Dunque, nonostante i fondi sanitari contemplino forme di tutela anche per i familiari dei dipendenti, restano molte questioni irrisolte sul tema dell’inclusività.
La prima riguarda il destino di queste persone, una volta che la loro vita lavorativa si è conclusa. Infatti, un po’ come nel modello statunitense, la sanità integrativa ottenuta con la contrattazione copre il dipendente fino al pensionamento, per poi “abbandonarlo” nel momento di maggior bisogno. Inoltre, stiamo parlando di lavoratori dipendenti del settore privato: il pubblico non fa parte di questo gruppo (nonostante qualcosa si stia muovendo), ne tantomeno ne fanno parte gli autonomi e le varie forme di lavoro atipico. Chi infatti ha un percorso lavorativo contraddistinto dalla precarietà, difficilmente potrà rientrare in quei contratti che prevedono forme di sanità integrativa.
Problematiche sulle quali si sono soffermati, nei loro interventi al Welfare Day, i rappresentati delle parti sociali, sottolineando come il welfare aziendale o contrattuale faccia emergere con forza la questione e il tema dell’inclusione. Stando così le cose, c’è il rischio che le dicotomie territoriali e le disparità sociali vengano ancor di più acuite, a si verifichi una dualizzazione dei diritti, con cittadini e lavoratori di serie A da una parte, e quelli di serie B dall’altra.
In che modo dunque dobbiamo vedere e valutare la sanità integrativa? Come una figlia del fallimento dell’universalismo del SSN o come una sua naturale e fisiologica evoluzione, visto i cambiamenti socio-economici in atto? Ciò che è emerso dal dibattito è, prima di tutto, il bisogno di una gestione più organica della sanità integrativa e di quella privata, affinché non si generi una dispersione delle risorse, ma un loro sapiente utilizzo.
La proposta avanzata da RBM è quella di rendere la obbligatoria, come in Francia, la sanità integrativa per tutti i cittadini: in questo modo verrebbe a crearsi un secondo pilastro complementare. L’altro aspetto è un’opera di sensibilizzazione delle popolazione con i redditi più alti (15 milioni di cittadini), affinché copra, tramite un’assicurazione privata, la totalità delle spese mediche, liberando in questo modo risorse e liste di attesa per tutti coloro che non possono, autonomamente, fronteggiare i costi medici, e devono rivolgersi al SSN. In questo modo si avrebbe un notevole risparmi di fondi pubblici, da investire verso i cittadini più bisognosi, scongiurando anche i rischio di un possibile crack del SSN.
Dunque la strada tracciata al Welfare Day per la sanità pubblica italiana è quella di un universalismo selettivo, un universalismo che accompagna chi non può camminare con le proprie gambe, e che invece lascia la mano a chi può occuparsi della propria salute in autonomia. Un universalismo che dovrebbe mantenersi tale per tutte le patologie più gravi, ma che dovrebbe scomparire per quelle prestazioni non urgenti, e che ingolfano l’apparato pubblico, portando alla creazione di lunghissime liste di attesa. in questo modo dovrebbe essere perseguito quel valore di equità sociale che dovrebbe animare l’intero impianto della sanità.
Quel che è certo è che il SSN, come hanno evidenziato in apertura dei lavori Giuseppe De Rita, presidente della fondazione Censis, e Francesco Maietta, responsabile Area Politiche Sociali del Censis, oggi stenti a dare quella sicurezza e quelle tranquillità sociale ai cittadini, come avveniva in passato.