Il sistema pensionistico italiano regge a patto però di compiere scelte oculate su anticipi ed età di pensionamento e di migliorare la politica industriale del Paese per mantenere quell’equilibrio sottile sul quale poggia. Queste le conclusioni del decimo Rapporto sul sistema previdenziale italiano redatto dal Centro Studi e Ricerche ‘Itinerari Previdenziali’ presieduto da Alberto Brambilla e che analizza gli andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2021.
Il sistema di protezione sociale è costato, nel 2021, per previdenza, sanità e assistenza 517,753 miliardi, con un aumento di 8,25 miliardi (+1,62%) rispetto al 2020. Ma se per Inps e Inail si può parlare di un sistema in equilibrio in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per la spesa assistenziale, per quella sanitaria e per il welfare degli enti locali: si tratta di spesa che, in assenza di contributi di scopo, deve essere finanziata dalla fiscalità generale.
Infatti se mentre l’andamento della spesa per le prestazioni previdenziali del sistema obbligatorio si mantiene tutto sommato stabile (+3,54 miliardi rispetto al 2020), si conferma sempre più difficile da sostenere per il paese il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale: dal 2008, quando ammontava a 73 miliardi, l’incremento è stato di oltre 71 miliardi, con un tasso di crescita annuo di oltre il 6%, addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni, comunque sostenute da contributi di scopo. Il tutto mentre, secondo i dati Istat, cresce il numero di persone in povertà e continua ad aggravarsi la tendenza a generare nuovo debito, penalizzando gli investimenti a favore di produttività e sviluppo del paese.
Per dare un ordine di grandezza, spiega il Rapporto – si può stimare che per finanziare sanità e assistenza, nel 2021, siano occorse pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche parte di quelle indirette. Per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono allora che le residue imposte indirette, le altre entrate e soprattutto la strada del “debito”, ponendo anche un tema di equità e sostenibilità del sistema.
Il rapporto evidenzia, inoltre, che dopo la discesa imputabile al covid, torna a migliorare il rapporto attivi/pensionati, fondamentale indicatore di tenuta della previdenza italiana: il valore si attesta a quota 1,4215, grazie alla ripresa dell’occupazione, contro 1,384 dell’anno precedente. Questo grazie alla risalita dell’occupazione, con il recupero di oltre mezzo milione di lavoratori, dopo la fase più dura della pandemia caratterizzata dai lockdown, e un dato complessivo sull’occupazione che a giugno 2022 ha fatto registrare 23 milioni di lavoratori. Seppure in miglioramento, il dato resta dunque piuttosto distante dall’1,5 ritenuta soglia minima necessaria per la stabilità di medio-lungo termine del sistema. Al netto dell’assistenza, spiega lo studio, il sistema pensionistico risulta in equilibrio ma la sua stabilità rischia di essere minata dalle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero, dall’incapacità di affrontare adeguatamente l’invecchiamento della forza lavoro e da livelli occupazionali da fanalino di coda in Europa, per quanto in miglioramento.
“A oggi il sistema è sostenibile e lo sarà anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando le ultime frange dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 si saranno pensionate”, spiega Alberto Brambilla. “Perché si mantenga questo delicato equilibrio, sarà però indispensabile intervenire maniera stabile e duratura sul sistema, tenendo conto di 4 principi fondamentali: l’età di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa – circa 63 anni l’età effettiva in Italia contro i 65 della media europea- nonostante un’aspettativa di vita tra le più elevate a livello mondiale, che dovranno dunque gradualmente aumentare; l’invecchiamento attivo dei lavoratori, attraverso misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce più senior della popolazione; la prevenzione, intesa come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute; le politiche attive del lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale, anche on the job”. Insomma, conclude il Rapporto di ‘Itinerari Previdenziali’ servirebbe un serio cambio di rotta da parte del nostro Paese, che oggi vede la quasi totalità della spesa pubblica indirizzata verso sussidi e assistenzialismo, quando invece necessiterebbe di una seria revisione della propria organizzazione del lavoro e dei propri modelli produttivi.
Per Stefano Cuzzila, presidente Cida, “prima di mettere le mani sugli assegni pensionistici o ragionare su ipotesi di riforma del settore, sarebbe bene separare i conti della previdenza da quelli dell’assistenza. Noi abbiamo quasi la metà delle pensioni non coperte da contributi: parliamo di 7 milioni di persone assistite su 16 milioni di pensionati. La spesa per assistenza cresce al ritmo del 6% all’anno, quella per le pensioni frutto di contribuzione è in sostanziale equilibrio. Quindi non è vero che i conti pensionistici sono in rosso, è vero piuttosto che con le pensioni frutto di una vita di lavoro si sta finanziando un’altra spesa che altrimenti non si saprebbe come sostenere”. “Non è in discussione aiutare chi ha meno, che è il fine di ogni welfare state, ma occorre tutelare chi è onesto e scovare chi evade. Vanno incrociate le banche dati degli enti pubblici e – aggiunge Cuzzilla – verificare come mai ci risultano soltanto 5 milioni di contribuenti che dichiarano più di 35mila euro lordi l’anno e che restano praticamente soli a pagare il welfare di tutti”.
Tommaso Nutarelli