Nel corso di una recente intervista Maurizio Landini è tornato a rilevare come per il sindacato sia giunto il tempo di cambiare per riportare al protagonismo i lavoratori e le lavoratrici del nostro paese. L’attuale segretario generale della Cgil non è nuovo a prese di posizioni di questo genere, ma onestamente sarebbe interessante conoscere più nel dettaglio in che cosa dovrebbe consistere questo rinnovamento che pure è necessario. In letteratura sono presenti diversi saggi che hanno provato ad interpretare il ruolo del sindacato italiano cercando di spiegare le ragioni di un declino della sua capacità di esercitare la rappresentanza in modo efficacie e quindi di essere percepita dai soggetti che si vorrebbero tutelare. Lo stesso si potrebbe dire anche degli altri corpi intermedi perché la disintermediazione ha riguardato tutta la società organizzata compresi i partiti che hanno perso la loro capacità di aggregare i cittadini dal basso. Apparentemente siamo di fronte ad un ossimoro: la società si frantuma e chi dovrebbe contribuire ad una sua sintesi perde consenso e conseguentemente legittimazione collettiva. Rimane invece in essere la capacità di dare risposte individuali ai problemi delle singole persone e obiettivamente la rete degli uffici sindacali rimane forse l’unico presidio sociale presente capillarmente sul territorio. Diverse analisi, ma anche l’esperienza, dimostrano che nella maggioranza dei casi l’associazione sia più assimilabile ad un contratto di servizio che non ad un’adesione consapevole necessaria ad esercitare la rappresentanza collettiva degli interessi. Questo spiegherebbe la tenuta del tesseramento che, in un confronto con gli altri paesi avanzati, rimane uno dei più alti in termini percentuali sul totale degli occupati. Dovrebbe invece far riflettere la riduzione della capacità di mobilitazione delle stesse organizzazioni che con sempre maggiore difficoltà riescono a motivare persone disposte ad esercitare un mandato volontario nei posti di lavoro e conseguentemente a partecipare attivamente alla loro democrazia interna ai diversi livelli. Le ragioni sono molteplici, ma qui ci limiteremo ad elencare quelle che riteniamo essere le principali: l’invasione della rete internet nella vita delle persone, il crollo quantitativo del lavoro tipicamente subordinato, l’aumento della precarietà sia nell’ambito del terziario che nel sempre più diffuso lavoro in appalto, la stagnazione dei salari e l’incertezza in merito al contratto collettivo da applicare in base alla tipologia merceologica dei prodotti e dei servizi generati dalle imprese in un contesto nel quale i cicli produttivi sono sempre più trasversali alle tradizionali categorie sindacali. Questi fattori, se analizzati in un contesto integrato, incidono sulla capacità di quel riconoscimento di ruolo sociale senza il quale il sindacato rischia un aumento della sua già evidente marginalità.
La maggioranza dei cittadini, probabilmente senza rendersene conto, forniscono un’enorme quantità di dati ai gestori dei social network o dei motori di ricerca senza curarsi che questi li influenzano rispetto a modelli valoriali antitetici con quelli su cui si fondano le organizzazioni di rappresentanza. E’ stata utilizzata l’espressione “colpo di stato cognitivo” per descrivere questo fenomeno e noi crediamo che sia una definizione condivisibile soprattutto se le mettiamo in relazione con gli effetti della pandemia che ha accelerato la dimensione online delle relazioni rendendo sempre meno rilevante la presenza fisica in un determinato luogo per l’espletamento finanche delle commissioni personali. Siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione sociale che ha avuto origine con la diffusione della rete, ma che è letteralmente esplosa con la sua fruizione compulsiva se pensiamo a come ha inciso sui nostri comportamenti. Un’organizzazione che basa la sua legittimità sulle relazioni non potrebbe che interrogarsi rispetto alla sua capacità di essere ancora un soggetto aggregante in un contesto nel quale anche le coppie di innamorati siedono al tavolo del ristorante dialogando con il loro smartphone. Le ragioni della crescente perdite di ruolo del sindacato possono essere fatte risalire a prima della diffusione della rete e hanno origine dal progressivo calo del lavoro tipicamente subordinato a tempo indeterminato e dalla crescita quantitativa del terziario nel quale ormai trova occupazione 2/3 del totale della popolazione attiva. Una così ampia presenza di servizi spiega bene l’andamento piatto della produttività registrata negli ultimi due decenni e grazie alla quale sono diminuite le possibilità di redistribuire reddito con l’attuale sistema contrattuale. La stagnazione dei salari ha anche un’altra spiegazione: la centralità nelle relazioni industriali attraverso i troppi CCNL che sarebbero un’enormità anche se si escludessero quelli “pirata” che ormai sono 2/3 del totale. La rilevazione della rappresentatività di tutti gli attori della negoziazione collettiva è un tema non più rinviabile e lo strumento principe rimane quello dell’accordo tra le parti, ma alla sola condizione che sia effettivamente esercitata la sua attuazione. Al livello nazionale dovrà rimanere la statuizione delle regole afferenti il rapporto di lavoro che costituisce la parte normativa dei CCNL, ma dovranno necessariamente essere definiti i requisiti di rappresentatività attraverso i quali gli stessi CCNL potranno godere del riconoscimento “erga omnes”.
Il salario può anche essere indiretto ed erogato attraverso il cosiddetto “welfare integrativo” che rimane l’unica vera frontiera sindacale attraverso la quale migliorare le condizioni di vita della maggioranza dei lavoratori compresi quelli che hanno rapporti di lavoro non tipicamente subordinati. Gli ambiti di riferimento sono: la previdenza complementare, la sanità integrativa, la formazione continua, il welfare aziendale e gli ammortizzatori sociali. Attraverso questi strumenti, quasi tutti gestiti secondo il principio della bilateralità, può essere esercitata la rappresentanza efficace che ci chiedono i lavoratori e che dobbiamo soprattutto alle generazioni più giovani e alle donne che sono le categorie maggiormente colpite dalla crisi che stiamo drammaticamente vivendo. La condizione per il loro successo è lo spostamento del baricentro dell’intervento sul territorio pensando ad un vero e proprio cambio di paradigma rispetto alla situazione attuale che vede la presenza prevalente di fondi nazionali. La sola eccezione è il welfare aziendale che per definizione si genera dalle relazioni industriali di prossimità nelle unità produttive che sono ancora in grado di eleggere le RSU; nelle altre, purtroppo la maggioranza, le aziende fanno da sole.
I risultati dell’attuale modello non sono confortanti: alla previdenza complementare aderisce meno di 1/3 della forza lavoro e crescono di iscritti veri (quelli che investono anche TFR) solo i fondi aperti e i PIP; la sanità integrativa ad adesione collettiva fornisce risposte ai bisogni di intermediazione della spesa privata nella misura media del 30% anche se dati ufficiali non esistono stante la debolissima regolamentazione legislativa; la formazione continua svolta dai fondi inteprofessionali è frequentata dall’8,5% degli occupati in un paese che ha un gravissimo deficit cognitivo soprattutto nell’ambito delle “soft skills” che andrebbero continuamente aggiornate; i fondi di solidarietà bilaterali sono ampiamente evasi e interessano una minoranza degli occupati. Se il welfare integrativo fosse spostato sul territorio e messo a rete tra i suoi diversi ambiti, permetterebbe di aumentarne l’efficacia e di mettere al centro della sua azione la persona nel luogo dove lavora creando con i servizi che genererebbe anche occupazione di qualità. Un sistema centralizzato come quello attuale aumenta le disuguaglianze territoriali e soprattutto rende marginali rispetto alla sua fruizione quel 27% di lavoratori molto precari che cambia spesso lavoro e settore.
Viviamo iper-connessi, ma sempre più soli anche nell’affrontare le sfide che la vita. Riteniamo che, anche per queste ragioni, ci sia una gran domanda di rappresentanza sociale, ma la risposta non può essere la stessa che ha ricevuto la generazione dei “baby boomers” nella seconda metà del Novecento. Il lavoratore massa che trascorreva tutta la vita nello stesso settore e spesso nella stessa azienda utilizzando le competenze specifiche che acquisiva durante la formazione di base appartiene ormai alla storia. L’invecchiamento della popolazione e la centralità della persona nel suo ciclo di vita richiedono nuove forme di rappresentanza che attraverso le relazioni industriali di prossimità si possono concretamente realizzare superando la frammentazione categoriale per la quale la soddisfazione dei bisogni appare come un limite.
La definizione “sindacato di strada” di cui ha parlato recentemente Landini è pertanto condivisibile, ma avrà una speranza di successo se si realizzerà nel vicolo dietro la propria abitazione e non sulla tangenziale di una metropoli nelle quali si viaggia in modo anonimo e senza alcuna relazione sociale.
Il necessario cambiamento del sindacato sarà possibile se si manterrà una cornice strategica nazionale all’interno della quale i colori del quadro li dovranno necessariamente scegliere i territori in base alle loro specifiche esigenze.
Michele Buonerba