Che il governo non abbia una politica sul pubblico impiego è ormai evidente. I numerosi stop and go sulla decreto sulla PA con la poco decorosa marcia indietro su quota 96 per gli insegnanti e il sofferto anticipo a 65 anni per l’età di uscita dei medici (professori universitari e in parte primari esclusi) ne è la prova.
L’assenza di una prospettiva politica nasce tuttavia dal mancato superamento del “Brunettismo” ovvero sia da quella tendenza ormai radicata in tutti i ministri subentrati alla guida del ministero della Funzione Pubblica successivamente alla riforma della PA targata BB (Brunetta/Berlusconi) di considerare la pubblica amministrazione come un fardello e il personale addetto un costo da comprimere.
E questa visione, in cui manca qualsiasi considerazione sul ruolo che i dipendenti pubblici svolgono nel garantire servizi essenziali e non incidentalmente tutelati dalla nostra Costituzione, è stata assunta anche dall’attuale governo (e purtroppo anche dalle regioni) come un must a cui nessuno ha intenzione di sottrarsi.
Se non fosse così il sindacato sarebbe stato coinvolto ( o per lo meno sentito) prima di mettere mano a dei provvedimenti interessanti il personale della PA e forse in questo modo si sarebbe potuta evitare, durante la lunga gestazione del provvedimento una brutta figura per il ministro Madia, ammesso e non concesso che nella visione “liquida” del premier Renzi la forma abbia ancora un peso.
Ancora più imbarazzante la situazione dei sindacati medici, una volta rappresentanti di quella “aristocrazia” professionale con cui tutti i ministri volevano mantenere buoni rapporti per il ruolo sociale ricoperto dalla categoria
E in questo caso la determinazione dl governo di mantenerli all’angolo si è espressa con particolare durezza.
In primis non è stato rimosso il lascito avvelenato di Brunetta ( in cauda venenum!) relativo alle aree di contrattazione. Sappiamo infatti che avendo la legge 150/2009 imposto non più di 4 comparti cui corrispondono non più di 4 aree, essa ha reso impossibile l’accordo quadro tra la parte pubblica rappresentata dall’Aran e le confederazioni generali rappresentative senza vincoli legislativi. La legge infatti ha identificato preliminarmente 2 di questi comparti ed aree: la prima rappresentata dai dipendenti (comparto) e dai dirigenti (area) dei Comuni e delle Province e la seconda dai dipendenti (comparto) e dai dirigenti (area) delle Regioni. E questo significa che i restanti 2 comparti cui corrispondono le restanti 2 aree non possono essere che lo Stato e la Scuola.
In tal modo non vi è più alcun spazio per la dirigenza medica e veterinaria (che attualmente è un’area autonoma) e per la dirigenza sanitaria, tecnica, professionale ed amministrativa (anch’essa attualmente area autonoma)
Alla fine dei giochi , senza una modifica legislativa, richiesta ma mai ottenuta, tutto il Servizio Sanitario Nazionale confluirebbe in un’area indistinta di tutti i dipendenti e i dirigenti delle Regioni e la specificità del SSN e le sue peculiarità normative e contrattuali nonché gli specifici istituti economici e contrattuali risulterebbero dispersi in un generico contratto.
Una condizione di vera e propria “rotta” che i sindacati non possono accettare e che rappresenta un macigno a qualsiasi tentativo di riaprire le trattative. A questo si è aggiunto il mancato coinvolgimento dei sindacati medici nei provvedimenti legislativi di riforma della PA che ha prodotto solo ex post emendamenti correttivi che hanno reso il testo particolarmente sibillino per quanto riguarda l’età di pensionamento dei medici.
A questo si è aggiunto poi il mancato sblocco delle risorse necessarie al rinnovo dei contratti, fermi ormai dal 2000, che hanno inferto un duro colpo a quanti si aspettavano l’avvio di una nuova fase di concertazione con le parti sociali.
Non diverso il trattamento riservato ai sindacati medici dalle regioni ( che ora gridano contro i nuovi ventilati tagli al fondo sanitario nazionale) . In questo caso l’esclusione dalla gestazione lunga e faticosa del Patto per la salute, siglato poche settimane orsono tra governo e regioni, e in cui i temi legati alla risorsa umana e all’organizzazione del lavoro hanno un peso significativo, è stata totale a ulteriore dimostrazione della “inessenzialità” delle pratiche concertative mandate in soffitta dal governo Berlusconi e mai più riesumate anche da governi espressione della sinistra
Si tratta dunque di un vero e proprio cambio di fase; del tutto simile a quei passaggi da uno stato fisico ad un altro a cui le stessi leggi della fisica non sanno ancora dare risposta e che sono da imputare a proprietà “emergenti” e in un certo senso non prevedibili, insite nei sistemi complessi.
Una situazione dunque di progressiva esclusione del sindacato gratuita e senza valide motivazioni, considerato anche il ruolo positivo che il sindacato ha svolto nel processo di riforma della PA avviato da Bassanini in anni ormai remoti.
Difficile è capire come uscire da tale situazione che dovrebbe togliere il sonno ai dirigenti sindacali e che li dovrebbe spingere a fare fronte comune per risalire la china. Per fare questo servirebbe una reale indipendenza dalla politica che oggi manca e che è testimoniata dal passaggio quasi automatico al termine del loro mandato dei vertici sindacali dalle confederazioni agli scranni del Parlamento.
Il sindacato rischia la marginalità e il paradosso è che in un tempo recente furono le politiche concertative a farci uscire dalla crisi degli anni ’90 e farci entrare in Europa.
Tempi recenti che per quella strana accelerazione a cui ha tanto contribuito Brunetta e che il movimentiamo modernista di Renzi ha ripreso sono diventati sideralmente lontani.
di Roberto Polillo