E’ terminato sabato 28 maggio, con l’elezione di Luigi Sbarra a segretario generale e la conferma della segreteria uscente, il lungo percorso che ha portato la CISL al diciannovesimo congresso confederale in 72 anni di storia. Già in svolgimento le assisi territoriali della UIL e ai nastri di partenza le assemblee della CGIL. Entro la fine del 2022 i primi tre sindacati italiani rinnoveranno i propri consigli generali e le segreterie territoriali, di categoria e nazionali.
Da oramai venti anni il sindacato è al centro di critiche, processi, inchieste mediatiche, talvolta anche ironie. L’affermazione nelle aule universitarie di economia e ingegneria (ancora le prime facoltà di formazione del management) delle teorie anglosassoni sulla gestione del capitale umano ha avuto come esito l’insediamento nelle aziende di generazioni di giovani cresciuti nella convinzione che il sindacato sia “un passaggio in più” tra la deliberazione e l’attuazione e, di conseguenza, una zavorra per le strategie veloci e mutevoli (sovente anche contradditorie) della competizione economica di oggi.
Tanto si è scritto di crisi della rappresentanza, indebolimento dei corpi intermedi, individualismo politico e sociale. Tutto vero, certamente. Non bisogna d’altra parte essere dei raffinati sociologi per accorgersi che il mondo di oggi è diverso da quello degli anni Settanta, il decennio nel quale il sindacato è stato più influente, radicato nell’immaginario popolare e raccontato scientificamente. Un intellettuale innamorato delle relazioni industriali come Pietro Merli Brandini posizionava l’età dell’oro del sindacato nel ventennio precedente, contraddistinto dalla libera e diffusa contrattazione. Per alcuni, il momento più alto del sindacato è stato negli anni Ottanta, con la firma del patto di San Valentino e la vittoria (o la sconfitta, dipende dal punto di osservazione) nel successivo referendum. Si tratta, in ogni caso, di altre epoche.
Chi argomenta in questo senso, pare dare per certa una considerazione che è sempre postulata, ma mai provata: che il sindacato sarebbe un residuato del Novecento, strutturalmente incapace di comprendere la modernità. Una sorta di “iguana sociale”, sopravvissuta alla estinzione dei corpi intermedi del secolo scorso (i partiti politici di massa, le banche popolari, gli oratori, le società di mutuo soccorso, i movimenti ecclesiastici etc…), che ci racconta qualcosa del mondo che fu e che perciò merita di essere protetta, musealizzata, ma non certamente vissuta.
In veste di Presidente di ADAPT ho avuto la fortuna di partecipare a diversi congressi di categoria e a qualche giornata del congresso nazionale CISL. Ammetto di non avere avuto l’impressione di dialogare con dei dinosauri.
Il cuore dei congressi non è da ricercarsi mai nella loro proiezione esterna, nelle notizie che vengono battute dalle agenzie di stampa. Sono forse quelle a restituire a chi non frequenta il sindacato una fotografia distorta, tendente al bianco e nero, molti simile alle dinamiche da talk show. Una riduzione alla quale si sono piegati anche molti accademici, disabituati a frequentare quelle realtà che vorrebbero studiare. Il sindacato non è però un articolo della Costituzione o una formula algebrica: ha bisogno di essere incontrato per essere conosciuto, non soltanto ridotto a una più o meno ispirata formula politologica o giuslavoristica.
La linfa di queste assisi scorre nei corridoi che circondano il salone principale, dove donne e uomini provenienti da ogni dove (quest’anno, nella quattro giorni della CISL, anche da Ucraina e Bielorussia) si re-incontrano dopo anni di frustranti video-call; dove si ammassano centinaia di persone anche durante lo svolgimento degli incontri principali perché il punto su quella crisi di impresa o sulla situazione di quel lavoratore è più importante anche dell’intervento del Premier Draghi; dove tre o quattro generazioni di sindacalisti si conoscono e provano a fare sintesi tra esperienza e vigore giovanile; dove si chiudono accordi per modificare la mozione finale e si fantastica di mirabolanti operazioni politiche interne perché il cammino verso il prossimo congresso inizia un minuto dopo la fine di quello in svolgimento.
Allo stesso modo, le telecamere e le macchine fotografiche si moltiplicano quando entra in sala il politico di grido, quando interviene il Ministro, quando si presenta questo o quel Presidente; sono però spente quando parlano i delegati delle categorie e dei territori o chi rappresenta i servizi (solitamente rispettando una sorta di cerimoniale non scritto per quanto concerne le precedenze). Un centinaio di interventi contenuti in massimo 7/8 minuti (e chi si allarga rischia di essere fischiato…) che molto dicono di cosa sta succedendo nel mondo del lavoro e della capacità del sindacato di conoscere tutto ciò che accade lungo lo stivale, presidiandolo, anche quando sbaglia. Nessun partito oggi può vantare un radicamento di questo genere, superiore anche alla diffusione degli uffici pubblici.
Non si pensi che ai congressisti non interessino anche i contenuti di natura più politica e strategica, ovviamente. Anzi, vi è una naturale (e talvolta morbosa) attrazione dei sindacalisti verso la politica, sia interna che nazionale. La relazione letta da Sbarra è stata seguita in assoluto silenzio e in molti hanno ricercato in quelle parole la propria posizione, il suggerimento che avevano fatto avere al proprio segretario, la mediazione tra le proposte circolate nei mesi scorsi, una linea chiara sui nodi contrattuali che li riguardano. I più si sono detti soddisfatti, qualcuno ha certamente storto il naso, come è naturale che sia.
Ugualmente i capannelli di persone che andavano continuamente creandosi e sfaldandosi tra i padiglioni della Fiera di Roma hanno a lungo discusso della assenza di Landini e Bombardieri alla tavola rotonda ove dovevano intervenire. Entrambi i segretari hanno motivato il forfait con ragioni personali e non strategiche, pur sapendo che la lettura che ne sarebbe emersa sarebbe stata esclusivamente politica, tanto più nel giorno nel quale è stato applaudito Mario Draghi. La loro mancanza è stata colta dal Presidente di Confindustria, presentatosi inaspettatamente in Fiera il giorno successivo, pur senza parlare alla platea. Tale situazione, inedita nella storia dei congressi confederali, non ha particolarmente agitato la platea, che è parsa invece fiera della originalità della posizione della CISL e assolutamente convinta di non rischiare alcun appiattimento sul Governo e, tanto più, verso Confindustria (era forse questo il messaggio che volontariamente, seppure indirettamente, volevano generare CGIL e UIL). Questo raccontano gli scroscianti applausi alla relazione conclusiva di Sbarra e l’unanimità di fatto della sua elezione.
Consenso rivolto anche ai concetti principali emersi dal congresso: la proposta di un rinnovato patto sociale tra Governo, sindacati e imprese per guidare la ripresa e governare il PNRR; la ribadita centralità della partecipazione, tanto come metodo, quanto come soluzione legislativa e contrattuale; il netto “no” ad ogni intervento legislativo su salario minimo e rappresentanza.
A ben vedere, non si tratta di posizioni semplici. Il progetto di grande accordo nazionale può risultare irreale in un momento nel quale i rapporti con i compagni di strada più prossimi (gli altri sindacati) risulta quantomeno teso; la partecipazione dei lavoratori alle imprese è una chimera giuslavoristica generatasi già nella Costituzione, più volte ribadita dalla CISL, ma mai realizzatasi legislativamente; il “no” al salario minimo è molto difficile da spiegare a una opinione pubblica sempre più convinta dai media che si tratti di un miracoloso vaccino contro il lavoro povero e la stagnazione dei salari.
Tuttavia, è forse proprio la scomodità di queste posizioni a rendere interessante l’atteggiamento con il quale la CISL si affaccia al dibattito tecnico e politico dopo il Congresso, sia esso condiviso o meno. Scriveva nel 1969 Mario Romani, ideologo della CISL delle origini: «dovrebbe essere un impegno di tutti, quello di tenere il più possibile lontana l’azione sindacale dalle evasioni e dai falsi problemi e tenerla, invece, il più vicina alle vere questioni che formano ostacolo al progresso economico e sociale dei lavoratori. Certo, non andare per le vie della facile evasione e cercare, invece, di stare più vicino possibile ai veri e concreti problemi che la tutela mette davanti giorno per giorno, richiede il coraggio delle decisioni impopolari».
Oggi forse si direbbe «il coraggio delle decisioni “impopuliste”» ed, effettivamente, in una epoca come questa, ce ne è tanto bisogno. Con buona pace di chi ha già relegato il sindacato tra i fossili del Novecento.
Emmanuele Massagli, Presidente Adapt
@EMassagli