Potrebbe sembrare un fatto casuale, provocato da grossolano opportunismo tattico, ma non è così. E anche se la sua origine può essere fatta risalire alle condizioni sopra descritte, ormai comincia a vivere di vita propria: parlo del sermone neo pauperista che da qualche tempo identifica la comunicazione del sindacato di una parte importante del sindacato italiano.
Il suo esordio recente è contemporaneo all’esordio del governo Draghi, quando forse per ragioni che affondano le proprie radici nell’inconscio (Draghi era un banchiere, ecc.) o per contagio riportato dalla cordiale frequentazione con populisti dei vari colori durante gli indimenticabili Governi gialloverdi e giallorossi, il sindacato ha riportato in auge un mood che fa da sempre parte della cassetta degli attrezzi, ma che da tempo era desueto a favore di uno stile più sobrio e meno retorico. Si parla di un linguaggio ispirato alle figure e all’atmosfera dei Miserables o della Londra di Dickens, inteso a creare sentimenti di indignazione e solidarietà. Artificio retorico in sé innocuo e lezioso, che però è assurto a dignità politica quando CGIL e UIL, alla ricerca di un casus belli che potesse giustificare una decisione grave come la proclamazione di uno sciopero generale, e in assenza di motivazioni tangibili e quantificabili (se non a prezzo di stiracchiare oltre il lecito matematica e statistica e loro applicazioni) hanno deciso di buttarsi sulle emozioni e sui sentimenti.
Già il lessico enfatico evidenzia questa scelta, con un salto qualitativo della retorica abbastanza sorprendente: “Sono troppe le persone che ci hanno chiesto aiuto, che continuano a soffrire, persone che quando ci incontrano, con le lacrime agli occhi, ci chiedono aiuto.”; “Noi ci siamo fatti carico della sofferenza di precari, di lavoratori part time, delle donne che hanno perso il lavoro”; “C’è crescita delle diseguaglianze, del lavoro precario, l’insostenibilità sociale (non finanziaria) del nostro sistema previdenziale.” In sostanza il richiamo al mito fondativo del “proletariato che ha da perdere solo le sue catene e da guadagnare un mondo”, che normalmente ha una funzione puramente decorativa, è diventato all’improvviso il contesto reale in cui il Sindacato pensa di muoversi. E’ ben vero che se dovessimo prendere per oro colato le dichiarazioni dei redditi saremmo di fronte, come sottolinea il Professor Brambilla, a un 57% di italiani (14.535.000 famiglie su un totale censito dall’Istat di 25,7 milioni) che sopravvivono con un reddito medio di 10.000 euro lordi l’anno. Ma è proprio qui il problema, il nostro sistema fiscale finisce per mettere insieme i veri poveri (spesso ignorati) con un numero altissimo di contribuenti che, spinti dal combinato disposto delle detrazioni e degli scaglioni, nascondono il proprio reddito. Qui dovrebbe concentrarsi l’azione del sindacato, magari rivendicando una più estesa applicazione del conflitto di interessi ampliando detrazioni e deduzioni o rivendicando l’aliquota progressiva personalizzata come in Germania, oppure moltiplicando i controlli per verificare la compatibilità del reddito dichiarato col proprio tenore di vita. Ma francamente queste concrete proposte non sembrano davvero emergere con chiarezza come obiettivi rivendicati.
I contenziosi non rispecchiano più una valutazione di merito, ma vengono considerati bandierine segnaletiche di conflitti decisivi, da cui dipendono giustizia, uguaglianza, diritti. E’parecchio significativo che nelle parole d’ordine divulgate per lo sciopero del 16 dicembre emerga una finalità esplicitamente palingenetica: “Cambiamo il Paese”. Era dai tempi del XX Congresso del PCUS che nessun sindacato italiano si poneva un obiettivo così totalmente “politico”. Un obiettivo così radicale forse fa ogni tanto un po’ paura anche a chi lo proclama, che infatti si affretta a rassicurare che “si tratta di uno sciopero, non della rivoluzione”. Peccato che subito dopo rivendichi il merito di incanalare una rabbia sociale esplosiva, che senza l’azione del sindacato potrebbe scegliere strade molto più pericolose. Dunque, in sintesi: nel Paese c’è una situazione prerivoluzionaria, perché “nel corso degli ultimi anni si è precarizzato il lavoro in nome della flessibilità e della competitività”, le diseguaglianze aumentano, la povertà dilaga anche tra chi lavora, il fisco ruba ai poveri per dare ai ricchi, non si può anticipare la pensione perché si privilegiano le compatibilità finanziarie rispetto a quelle sociali, prevalgono logiche di profitto sfrenato, aiuti a pioggia alle imprese e via di questo passo. Per questo il Sindacato deve rivendicare un “Paese diverso”!
A parte le dimenticanze delle norme che disciplinano l’esercizio dello sciopero nei servizi essenziali o le affermazioni infondate di CGIL e UIL quando hanno tentato di contestare nel merito gli interventi previsti dalla Manovra, e le sparate retoriche tanto forzate da autoridicolizzarsi (favolosa “Loro alla Scala, noi a Tor Bella Monaca”), ciò che mi sembra davvero inquietante è che la parte maggioritaria del Sindacato Confederale stia gradualmente perdendo il rapporto con il lavoro vero, fatto di lavoratori e imprese che confliggono, contrattano, collaborano per creare e distribuire ricchezza; con la realtà di un Paese nel quale i Corpi Intermedi e le Istituzioni condividono una visione di società; e sostituisca questo patrimonio culturale, acquisito faticosamente in anni di storia e di pensiero, con il vaneggiamento di una società paleoindustriale, fatta di diseguaglianze, povertà, mancanza di diritti, di protezione sociale, che reclama un nuovo mondo (ovviamente in cambio delle proprie catene…) come contesto concreto in cui il sindacato svolge il proprio ruolo di protagonista del conflitto storico tra lavoro e capitale, poveri e ricchi (ma vogliamo cercare di capire come si individua un ricco ?), Robin Hood e Re Giovanni. Una promotion, uno spot pubblicitario per un Sindacato che ha paura di non saper più chi e come rappresentare in un modo del lavoro che cambia, e che invece rischia di diventare un relitto della storia proprio se rincorre le sicurezze del “come eravamo”.
Claudio Negro