La Capitanata, denominazione alternativa della provincia di Foggia, si estende su 7.000 km² sulla suggestiva pianura del Tavoliere con circa 700 mila ettari di terre racchiuse tra i monti Dauni e il Gargano. In Capitanata si concentra una parte rilevante di produzione agricola in piena aria, il 30% dell’intera produzione nazionale di asparagi, melanzane, cavoli, carciofi, finocchi e broccoli (si consideri che nella provincia di Foggia si trovano 50.000 ettari sui 300.000 presenti sul territorio nazionale).
La coltivazione del pomodoro, invece, interessa circa 15.000 ettari destinati alla produzione di circa 14 milioni di quintali di pomodoro. L’agricoltura in Capitanata è un settore di ripiego per la forza lavoro che difficilmente riuscirebbe a collocarsi in altri ambiti. I notevoli cambiamenti che hanno interessato il settore riguardano il ritiro delle fasce anziane del bracciantato a cui sono subentrati i lavoratori stranieri, prima comunitari e ora extracomunitari. La produzione locale è associata allo sfruttamento lavorativo e al caporalato; lo dimostrano i numerosi fatti di cronaca che si sono verificati: tra questi, decessi causati da malori durante l’attività lavorativa, morti durante i trasporti con i furgoncini guidati dai caporali, indagini della Procura e dell’Ispettorato del lavoro che hanno accertato migliaia di rapporti di lavoro irregolari. Tali fenomeni vengono favoriti dalla forte presenza sui territori agricoli del Mezzogiorno, tra cui la Capitanata, di immigrati dispersi negli insediamenti informali.
Nel territorio della Capitanata insistono veri e propri ghetti, costituiti da baraccopoli sorte ai margini delle aree urbane, prevalentemente nel territorio del sud della provincia di Foggia. Questi luoghi sono il perfetto serbatoio di forza lavoro per i caporali, che partono proprio dalle baraccopoli per reclutare la manodopera richiesta dalle aziende poste nelle vicine campagne.
Non soltanto il caporalato è favorito dalle condizioni abitative della manodopera immigrata, ma anche queste ultime paiono in buona parte determinate dall’assenza di contratti di lavoro stabili, che inibiscono l’accesso agli alloggi nelle aree urbane. Nella provincia di Foggia sono stimati circa 24 insediamenti (sui 35 monitorati in Puglia), abitati prevalentemente da uomini provenienti dal continente africano, ma si contano anche presenze europee, tra cui quelle dei bulgari.
Il numero degli abitanti dei ghetti è stimato in circa 8.000 presenze nell’intera Puglia, 12.000 nei mesi estivi. L’86,3% di queste presenze si concentra in Capitanata.
La posizione geografica degli insediamenti ha un ruolo decisivo nell’esclusione sociale dei lavoratori migranti, limitando l’accesso a molti diritti fondamentali in ambito civile, lavorativo e sanitario e amplificando le disuguaglianze. Il vincolo tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro e l’assenza di una efficace politica migratoria di inclusione, volta alla regolarizzazione delle persone senza permesso di soggiorno e presenti sul territorio, chiudono le persone in un circuito di lavoro irregolare anche per molti anni, con scarse possibilità di uscirne, senza tutele e diritti.
La presenza di lavoratori immigrati in Capitanata, un territorio con elevati livelli di disoccupazione (21,8%, oltre 13 punti percentuali in più sulla media italiana), attiene specialmente al settore agricolo, un mercato del lavoro scartato dalla popolazione autoctona.
Su 41.910 lavoratori iscritti negli elenchi anagrafici della provincia nell’anno 2021 sono impiegati 27.195 italiani, 5.786 africani, 4.266 comunitari, e 4.663 di altre nazionalità quindi l’incidenza dei lavoratori stranieri è del 35%. Negli anni precedenti l’incidenza è passata dal 19% del 2017 al 38% del 2019 per arrivare al 32% del 2020, tenendo sempre in considerazione che nell’anno 2020 molti lavoratori non sono riusciti a rientrare in Italia per le raccolte a causa delle limitazioni agli spostamenti dovuti al Covid-19.
In questo contesto opera il sindacato a Foggia quale «sindacato di frontiera», con azioni che fuoriescono dalla normale tutela sindacale e abbracciano le ulteriori problematiche che interessano la vita dei lavoratori immigrati. L’avvento e l’incremento della forza lavoro migrante, con le sue specifiche esigenze, hanno inevitabilmente impattato sull’azione tradizionale del sindacato locale, alterandone in particolare il difficile equilibrio tra l’erogazione di servizi (necessari soprattutto per questa fetta di lavoratori) e l’assistenza politico-sindacale della categoria. La risposta a questa sfida è stata rafforzare le connessioni tra l’offerta individuale di servizi e l’avanzamento delle tutele collettive. Al pari del sindacato, data la forte presenza di lavoratori stranieri, assumono un ruolo di rilievo anche gli enti del terzo settore e le organizzazioni non governative che svolgono un’azione prevalentemente di supporto sui temi dell’immigrazione e sull’assistenza sanitaria.
La categoria Fai Cisl, che organizza i lavoratori agricoli, ha nel tempo associato alla classica erogazione di servizi di patronato e di assistenza sindacale, ulteriori servizi collegati alle nuove necessità dei lavoratori, che hanno permesso anche di accrescere il numero di iscritti.
Era già attivo sul territorio il lavoro dell’Anolf negli insediamenti informali dei lavoratori immigrati, attraverso l’operatività del cosiddetto «camper diritti in movimento», pensato da Anolf, Fai Cisl e dall’associazione Solidaunia (Ong che opera nel campo della cooperazione allo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo mettendo in rete le esperienze maturate sul territorio di Foggia) per offrire servizi di assistenza sanitaria e legale direttamente negli spazi abitativi della manodopera straniera che hanno prestato i loro servizi presso l’ex pista di Borgo Mezzanone, il ghetto di Rignano e Borgo Tressanti.
Ma in un contesto così delicato è stata evidente la necessità di far fronte a nuove esigenze emerse dai lavoratori immigrati. L’azione di categoria doveva necessariamente essere quella di un sindacato di strada e di frontiera. Dall’osservazione svolta nel territorio come operatrice sindacale, dalla lettura dei documenti archiviati nella sede di Foggia e dallo studio del fenomeno ai fini della ricerca per il dottorato, è nato il percorso di chi scrive, volto ad accrescere la consapevolezza dei diritti nei lavoratori stranieri al fine di costruire con loro un rapporto di fiducia e progressivamente di rappresentanza.
Oltre all’attività di sportello sindacale presso gli uffici, si sono accompagnate uscite pomeridiane nell’ex pista di Borgo Mezzanone e nel ghetto di Rignano per incontrare i lavoratori direttamente nei luoghi in cui dimorano, offrire tutela e assistenza di prossimità e far crescere la consapevolezza tra i braccianti dei propri diritti.
È stato inoltre realizzato un vero e proprio percorso di alfabetizzazione sui diritti sul lavoro e di protezione sociale – denominato l’Abc dei miei diritti – presso gli insediamenti informali di Borgo Mezzanone e di Rignano, con incontri volti a rendere consapevoli i lavoratori rispetto alle loro tutele.
Per svolgere l’attività nei ghetti ci siamo dotati di un minivan, chiamato «Tutele in movimento», all’interno del quale si offre settimanalmente assistenza ai lavoratori sui temi del lavoro e sul loro status politico, con il supporto della Fai Cisl nazionale, per facilitare il riconoscimento degli operatori sindacali (il minivan è corredato di adesivi del sindacato e delle sue campagne) e la redazione di alcune pratiche durante le uscite settimanali dei sindacalisti presso gli insediamenti informali. Dopo Foggia il progetto tutele in movimento è stato messo in campo in territori con problematiche analoghe come la Calabria e il Lazio.
Durante il lavoro negli insediamenti informali ho incontrato molte persone e molte storie, ma nella maggior parte dei casi l’azione è andata oltre il semplice sostegno sul lavoro: dalle vertenze sindacali all’aiuto con i green pass e le prenotazioni dei vaccini durante la pandemia, passando dalla tutela sui permessi di soggiorno al supporto per avere una carta di credito per poter ricevere la retribuzione.
Tra questi c’è il caso di Abdulie, un giovane lavoratore gambiano, assunto da un’azienda agricola di Orta nova che percepiva 4 euro all’ora per 6 ore di lavoro al giorno con 4 giornate dichiarate in busta paga, nonostante lavorasse una media di 8 ore al giorno per 24 giorni. Abdulie nel mese di aprile 2021 ha percepito 839 euro per aver lavorato 8 ore al giorno per 24 giorni ed è venuto da me per chiedere aiuto. Quando ho contattato il datore di lavoro questi mi ha espressamente detto che lo pagava meno degli altri perché era africano e non conosceva l’italiano. Abdulie è tornato spesso a parlare con me, nonostante le difficoltà linguistiche, e a raccontarmi del suo lavoro. Gli ho insegnato a contare i soldi che il datore di lavoro gli dava in nero, a calcolare le ore lavorate e a leggere le giornate sulla busta paga. Un giorno è tornato dal datore di lavoro e gli ha detto «Se non mi metti almeno 10 giornate al mese io non vengo più a lavorare» e, data l’avversione, se n’è andato. È venuto subito in ufficio a raccontarmi tutto fiero di quel piccolo gesto, ma mi sono resa conto che tutto lo sforzo che facciamo trova un limite perché noi non possiamo aiutarli più di così a trovare un lavoro né obbligarli a denunciare il datore di lavoro poiché ci sarà sempre il problema del permesso di soggiorno. Oggi, nonostante tutto, Abdulie ha finalmente ottenuto il permesso e lavora nella provincia di Barletta Andria Trani in piena regolarità.
Questo è un piccolo racconto di una realtà vissuta quotidianamente in cui l’impegno sulla consapevolezza dei diritti è tra le azioni fondamentali da portare avanti con i lavoratori stranieri a Foggia, anche se costa fatica.
Penso al caso di Abdoulaye, bracciante gambiano che abitava a Casa Sankara, struttura della regione Puglia costruita a seguito degli sgomberi del ghetto di Rignano, che ho incontrato quando abitava in un palazzo abbandonato a Foggia. È venuto da me arrabbiato chiedendo di essere aiutato per le giornate non dichiarate dall’azienda. Purtroppo, era molto difficile supportarlo poiché era senza permesso di soggiorno; da quel giorno, però, è venuto da me ogni settimana e l’ho aiutato a ottenerlo. «Non ti far sfruttare» sono le parole che ha ripetuto sempre dopo il nostro incontro. Ha trovato un nuovo lavoro e, dopo poco, il datore gli ha proposto di lavorare nell’azienda edilizia di un amico, dandogli un alloggio e uno stipendio dignitoso. Ancora oggi, a distanza di due anni, mi chiama per raccontarmi come va il lavoro.
O, ancora, penso al caso di Zakaria, che in questi anni è diventato un grande amico; da oltre dieci anni vive a Borgo Mezzanone, grande lavoratore, muezzin della moschea, riferimento per tutta la comunità. In questi anni ci ha aiutati nel lavoro al ghetto di Borgo Mezzanone partecipando attivamente agli incontri, alle occasioni di confronto e rendendosi sempre disponibile per tutte le iniziative della Federazione. Dopo tanti anni, finalmente, con il nostro supporto, è riuscito ad avere un permesso di soggiorno di lunga durata e mi ha raccontato del desiderio di volersi spostare da Borgo Mezzanone al Nord Italia, dove abita la figlia, e, assieme alla Fai di quel territorio, stiamo cercando di aiutarlo a trovare un lavoro.
Tanti sono i lavoratori che hanno incontrato notevoli difficoltà a integrarsi nel tessuto sociale della Capitanata e che, pur lavorando le nostre terre, vengono di fatto esclusi da un sistema di accoglienza che non consente loro di regolarizzarsi. Lavoratori considerati ultimi, che vivono nelle periferie fisiche ed esistenziali, ma che hanno incontrato, attraverso i volti dei sindacalisti, un’organizzazione aperta e inclusiva, diventando interlocutori che orientano l’azione sindacale.
Oltre all’attività svolta a livello territoriale dalla Fai, c’è stato un notevole sforzo anche della struttura nazionale, a partire dalla decisione di puntare un faro sulle criticità del territorio a seguito della morte di una giovane donna, Hope, nel ghetto di Borgo Mezzanone e da quella di svolgere il VII congresso nazionale in Capitanata.
Nonostante gli sforzi profusi, molti rimangono ancora i problemi che attengono alla sindacalizzazione dei lavoratori immigrati. Il primo attiene sicuramente al loro status giuridico precario e all’assenza di una efficace politica migratoria di inclusione, volta alla regolarizzazione delle persone senza permesso di soggiorno e presenti sul territorio. Il secondo risiede nella necessità dei sindacati confederali di fare iscritti per essere rappresentativi. Seppur giusto, questo meccanismo di fatto impedisce di mettere in campo azioni congiunte sulle problematiche che interessano i lavoratori immigrati. Il terzo risiede nell’orientamento all’erogazione dei servizi che non consente ai lavoratori immigrati di comprendere cos’è realmente il sindacato stesso.
Durante alcuni incontri svolti a Casa Sankara ci siamo soffermati sulla conoscenza del ruolo del sindacato, chiedendo ai lavoratori presenti quando si sono rivolti al sindacato e per quali ragioni.
La percezione generale è stata quella di sindacato/patronato erogatore di servizi. Tutti i ragazzi hanno detto che si rivolgono al sindacato esclusivamente per fare la domanda di disoccupazione agricola, non conoscendo neanche l’origine di questo loro diritto. A domanda precisa sul sindacato che tutela i loro diritti tutti hanno risposto che non sanno cosa esso faccia realmente e non lo distinguono da altre tipologie di strutture.
Il quarto problema attiene alla barriera linguistica. La comunicazione plurilingue, infatti, è fondamentale per intercettare i lavoratori e metterli al corrente dei loro diritti. Negli anni 2020 e 2021 il governo ha introdotto una misura straordinaria di ai cittadini: il reddito di emergenza. Per l’ottenimento del beneficio occorreva presentare l’Isee e non aver avuto nei mesi di riferimento una retribuzione superiore al massimo importo della misura. Molti lavoratori si sono presentati per chiedere il reddito di emergenza e si è creato un problema di comprensione relativo all’Isee. La maggior parte dei lavoratori, infatti, pensava si trattasse di un bonus da erogare a prescindere dalla situazione economica e patrimoniale ed è stato quindi necessario spiegare cosa fossero l’Isee e il reddito di emergenza, semplificando e traducendo documenti esplicativi. Questo ha messo in evidenza la necessità per gli operatori del sindacato di conoscere quantomeno l’inglese e il francese.
L’ultimo problema attiene alla confusione tra l’azione sindacale e quella delle associazioni. Date le diverse vulnerabilità (sociali, lavorative, abitative ecc.) che affliggono i lavoratori immigrati in Capitanata, le organizzazioni sindacali che si relazionano con la manodopera straniera sono portate ad attuare interventi che fuoriescono dall’ambito strettamente lavorativo. Ed è in queste azioni di carattere sociale al di fuori dei luoghi di lavoro che le organizzazioni sindacali intercettano sul territorio anche l’operato delle associazioni del terzo settore e delle Ong, le quali, del resto, tendono sempre più a occuparsi anche di questioni lavorative. È così che i fenomeni del disagio abitativo e dello sfruttamento sul lavoro entrano fortemente in connessione, condizionando e mettendo in relazione tra loro anche gli interventi delle organizzazioni umanitarie e degli enti del terzo settore con le azioni della rappresentanza sindacale.
Complessivamente, le iniziative di strada svolte con la Fai Cisl di Foggia hanno avuto un obiettivo principale, ossia l’avvicinamento dei lavoratori al sindacato con la relativa comprensione delle dinamiche sindacali. Ad esempio, non è stato semplice spiegare il funzionamento della contrattazione provinciale e in particolare il ruolo dei sindacati nella negoziazione dei diritti relativi al rapporto di lavoro, in un contesto in cui spesso è un caporale a svolgere questa funzione in maniera informale. Del resto, proprio l’incertezza sulla funzione del sindacato per i lavoratori stranieri e l’informalità dei rapporti di lavoro continuano a ostacolare lo sviluppo di una reale azione di rappresentanza.
In questo modo, però, il sindacato è obbligato a tornare alle origini, uscendo dalle proprie sedi e consumando le suole delle scarpe nei luoghi di lavoro. Allo stesso modo, esso è costretto ad andare oltre il focus tradizionale sul rapporto di lavoro per abbracciare ̶ come del resto confermano analisi empiriche già condotte a livello internazionale ̶ anche tutte quelle dinamiche sociali e di identità etniche, culturali, religiose che fuoriescono dal contesto di lavoro ma che lo condizionano. I risultati raggiunti in questi anni di impegno, in termini di nuove adesioni al sindacato e di maggiore partecipazione da parte dei lavoratori già iscritti, sono però già visibili e motivano ancora di più la Fai Cisl di Foggia anche nel solco degli insegnamenti di don Lorenzo Milani e della sua scuola sulla dignità del lavoro come fattore di cittadinanza e di inclusione, tra i lavoratori agricoli e i mezzadri del Mugello.
Francesca Di Credico, sindacalista Fai-Cisl